Il Signore mi chiama a "salire sul monte", a dedicarmi ancora di più alla preghiera... (Benedetto XVI, 24 febbraio 2013)
mercoledì 29 giugno 2016
65° Anniversario dell'ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI: l'omaggio del blog (YouTube)
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Il 29 giugno 1951 l'allora ventiquattrenne Joseph Ratzinger veniva ordinato sacerdote a Frisinga insieme al fratello maggiore George.
In questo video, realizzato da Gemma, rivediamo le immagini di quel giorno così importante arricchite dal racconto del Santo Padre e dalle parole scritte dall'allora cardinale Ratzinger nell'autobiografia "La mia vita".
Il video è impreziosito anche da altre immagini che hanno visto il futuro Benedetto XVI crescere come sacerdote e come uomo.
Auguri, Papa Benedetto!
Ad multos annos! Le vogliamo bene e La abbracciamo.
Il Blog
P.S. un grandissimo ringraziamento a Gemma per il lavoro fatto in questa e in tutte le altre occasioni :-)
martedì 28 giugno 2016
"Non servos, sed amicos": 65° anniversario di Ordinazione Sacerdotale di Benedetto XVI (YouTube)
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Carissimi amici, alla vigilia del 65° anniversario di ordinazione sacerdotale di Papa Benedetto, gustiamoci questo bellissimo video realizzato da Gemma (che ringraziamo sempre per l'impegno senza pari) per gli Amici de La Vigna del Signore #BenedettoSacerdote65
Oggi, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico, ci sarà un omaggio a Benedetto XVI. Diretta su Tv2000 e Telepace a partire dalle 12.
R.
domenica 26 giugno 2016
Benedetto XVI racconta la sua esperienza di seminarista a Frisinga (YouTube)
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Buona domenica Amici!!! Un'altra lezione di Papa Benedetto regalataci dalla nostra Gemma.
In occasione dell'allora tradizionale visita al seminario romano maggiore, il 17 febbraio 2007, Benedetto XVI raccontò ai giovani la sua esperienza da seminarista a Frisinga. Molto importante ed istruttiva questa riflessione. C'è spazio anche per i sorrisi e una bella risata :-)
Rileggiamo e riascoltiamo.
INCONTRO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI CON I SEMINARISTI
Sabato, 17 febbraio 2007
DOMANDE DEI SEMINARISTI E RISPOSTE DEL SANTO PADRE
CLAUDIO FABBRI: DIOCESI DI ROMA del II anno (2° FILOSOFIA)
2. Padre Santo, come era articolata la sua vita nel periodo della formazione al sacerdozio e quali interessi coltivava? Considerando l’esperienza fatta, quali sono i punti cardine della formazione al sacerdozio? In particolare, Maria, quale posto occupa in essa?
“Io penso che la nostra vita, nel nostro seminario di Frisinga, era articolata in modo molto simile al vostro, anche se non conosco precisamente il vostro orario quotidiano. Si cominciava, mi sembra, alle 6.30, alle 7, con una meditazione di una mezz’ora, nella quale ognuno in silenzio parlava col Signore, cercava di predisporre l’animo alla Sacra Liturgia. Poi seguiva la Santa Messa, la colazione e poi, nella mattinata, le lezioni.
Nel pomeriggio seminari, tempi di studio, e poi ancora la preghiera comune. La sera, i cosiddetti “puncta”, cioè il direttore spirituale o il rettore del seminario, nelle diverse sere, ci parlavano per aiutarci a trovare il cammino della meditazione, non dandoci una meditazione già fatta, ma degli elementi che potevano aiutare ognuno a personalizzare le Parole del Signore che sarebbero state oggetto della nostra meditazione.
Così il percorso giorno per giorno; poi naturalmente c’erano le grandi feste con una bella liturgia, musica…
Ma, mi sembra, e forse ritornerò su questo alla fine, che sia molto importante avere una disciplina che mi precede e non dovere ogni giorno, di nuovo, inventare cosa fare, come vivere; c’è una regola, una disciplina che già mi aspetta e mi aiuta a vivere ordinatamente questo giorno.
Adesso, quanto alle mie preferenze, naturalmente seguivo con attenzione, in quanto potevo, le lezioni. Inizialmente, nei due primi anni la filosofia, mi ha affascinato, fin dall’inizio soprattutto la figura di Sant’Agostino e poi anche la corrente agostiniana nel Medioevo: San Bonaventura, i grandi francescani, la figura di San Francesco d’Assisi.
Per me era affascinante soprattutto la grande umanità di Sant’Agostino, che non ebbe la possibilità semplicemente di identificarsi con la Chiesa perché catecumeno fin dall’inizio, ma che dovette invece lottare spiritualmente per trovare man mano l’accesso alla Parola di Dio, alla vita con Dio, fino al grande sì detto alla sua Chiesa.
Questo cammino così umano, dove anche oggi possiamo vedere come si comincia ad entrare in contatto con Dio, come tutte le resistenze della nostra natura debbano essere prese sul serio e poi debbano anche essere canalizzate per arrivare al grande sì al Signore. Così mi ha conquistato la sua teologia molto personale, sviluppata soprattutto nella predicazione. Questo è importante, perché inizialmente Agostino voleva vivere una vita puramente contemplativa, scrivere altri libri di filosofia…, ma il Signore non l’ha voluto, l’ha fatto sacerdote e vescovo e così tutto il resto della sua vita, della sua opera, si è sviluppato sostanzialmente nel dialogo con un popolo molto semplice. Egli dovette sempre, da una parte, trovare personalmente il significato della Scrittura e, dall’altra, tenere conto della capacità di questa gente, del loro contesto vitale, e arrivare a un cristianesimo realistico e nello stesso tempo molto profondo.
Poi, naturalmente per me era molto importante l’esegesi: abbiamo avuto due esegeti un po’ liberali, ma tuttavia grandi esegeti, anche realmente credenti, che ci hanno affascinati. Posso dire che, realmente, la Sacra Scrittura era l’anima del nostro studio teologico: abbiamo realmente vissuto con la Sacra Scrittura e imparato ad amarla, a parlare con essa.
Poi ho già detto della Patrologia, dell’incontro con i Padri.
Anche il nostro insegnante di dogmatica era persona allora molto famosa, aveva nutrito la sua dogmatica con i Padri e con la Liturgia. Un punto molto centrale era per noi la formazione liturgica: in quel tempo non c’erano ancora cattedre di Liturgia, ma il nostro professore di Pastorale ci ha donato grandi corsi di liturgia e lui, al momento, era anche Rettore del seminario e così, liturgia vissuta e celebrata e liturgia insegnata e pensata andavano insieme. Questi, insieme con la Sacra Scrittura, erano i punti scottanti della nostra formazione teologica. Di questo sono sempre grato al Signore, perché insieme sono realmente il centro di una vita sacerdotale.
Altro interesse era la letteratura: era obbligatorio leggere Dostoevskij, era la moda del momento, poi c’erano i grandi francesi: Claudel, Mauriac, Bernanos, ma anche la letteratura tedesca; c’era anche una edizione tedesca del Manzoni: non parlavo in quel tempo italiano. Così abbiamo un po’, in questo senso, anche formato il nostro orizzonte umano. Un grande amore era anche la musica, come pure la bellezza della natura della nostra terra. Con queste preferenze, queste realtà, in un cammino non sempre facile, sono andato avanti. Il Signore mi ha aiutato ad arrivare fino al sì del sacerdozio, un sì che mi ha accompagnato ogni giorno della mia vita”.
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giovedì 23 giugno 2016
Benedetto XVI spiega il terzo compito del sacerdote: quello di governale (munus regendi). YouTube
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Grazie alla nostra Gemma mettiamoci in ascolto di un'altra importante lezione.
Il 26 maggio 2010, in occasione dell'udienza generale, Benedetto XVI tenne la catechesi sul terzo compito (dopo quello di insegnare e quello di santificare) del sacerdote: il dovere di governare.
Riascoltiamo e rileggiamo:
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 26 maggio 2010
Munus regendi
Cari fratelli e sorelle,
L’Anno Sacerdotale volge al termine; perciò avevo cominciato nelle ultime catechesi a parlare sui compiti essenziali del sacerdote, cioè: insegnare, santificare e governare. Ho già tenuto due catechesi, una sul ministero della santificazione, i Sacramenti soprattutto, e una su quello dell’insegnamento. Quindi, mi rimane oggi di parlare sulla missione del sacerdote di governare, di guidare, con l’autorità di Cristo, non con la propria, la porzione del Popolo che Dio gli ha affidato.
Come comprendere nella cultura contemporanea una tale dimensione, che implica il concetto di autorità e ha origine dal mandato stesso del Signore di pascere il suo gregge? Che cos’è realmente, per noi cristiani, l’autorità?
Le esperienze culturali, politiche e storiche del recente passato, soprattutto le dittature in Europa dell’Est e dell’Ovest nel XX secolo, hanno reso l’uomo contemporaneo sospettoso nei confronti di questo concetto. Un sospetto che, non di rado, si traduce nel sostenere come necessario l’abbandono di ogni autorità, che non venga esclusivamente dagli uomini e sia ad essi sottoposta, da essi controllata. Ma proprio lo sguardo sui regimi che, nel secolo scorso, seminarono terrore e morte, ricorda con forza che l’autorità, in ogni ambito, quando viene esercitata senza un riferimento al Trascendente, se prescinde dall’Autorità suprema, che è Dio, finisce inevitabilmente per volgersi contro l’uomo. E’ importante allora riconoscere che l’autorità umana non è mai un fine, ma sempre e solo un mezzo e che, necessariamente ed in ogni epoca, il fine è sempre la persona, creata da Dio con la propria intangibile dignità e chiamata a relazionarsi con il proprio Creatore, nel cammino terreno dell’esistenza e nella vita eterna; è un’autorità esercitata nella responsabilità davanti a Dio, al Creatore. Un’autorità così intesa, che abbia come unico scopo servire il vero bene delle persone ed essere trasparenza dell’unico Sommo Bene che è Dio, non solo non è estranea agli uomini, ma, al contrario, è un prezioso aiuto nel cammino verso la piena realizzazione in Cristo, verso la salvezza.
La Chiesa è chiamata e si impegna ad esercitare questo tipo di autorità che è servizio, e la esercita non a titolo proprio, ma nel nome di Gesù Cristo, che dal Padre ha ricevuto ogni potere in Cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18). Attraverso i Pastori della Chiesa, infatti, Cristo pasce il suo gregge: è Lui che lo guida, lo protegge, lo corregge, perché lo ama profondamente. Ma il Signore Gesù, Pastore supremo delle nostre anime, ha voluto che il Collegio Apostolico, oggi i Vescovi, in comunione con il Successore di Pietro, e i sacerdoti, loro più preziosi collaboratori, partecipassero a questa sua missione di prendersi cura del Popolo di Dio, di essere educatori nella fede, orientando, animando e sostenendo la comunità cristiana, o, come dice il Concilio, “curando, soprattutto che i singoli fedeli siano guidati nello Spirito Santo a vivere secondo il Vangelo la loro propria vocazione, a praticare una carità sincera ed operosa e ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati” (Presbyterorum Ordinis, 6).
Ogni Pastore, quindi, è il tramite attraverso il quale Cristo stesso ama gli uomini: è mediante il nostro ministero – cari sacerdoti – è attraverso di noi che il Signore raggiunge le anime, le istruisce, le custodisce, le guida. Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di san Giovanni, dice: “Sia dunque impegno d’amore pascere il gregge del Signore” (123,5); questa è la suprema norma di condotta dei ministri di Dio, un amore incondizionato, come quello del Buon Pastore, pieno di gioia, aperto a tutti, attento ai vicini e premuroso verso i lontani (cfr S. Agostino, Discorso 340, 1; Discorso 46, 15), delicato verso i più deboli, i piccoli, i semplici, i peccatori, per manifestare l’infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza (cfr Id., Lettera 95, 1).
Se tale compito pastorale è fondato sul Sacramento, tuttavia la sua efficacia non è indipendente dall’esistenza personale del presbitero. Per essere Pastore secondo il cuore di Dio (cfr Ger 3,15) occorre un profondo radicamento nella viva amicizia con Cristo, non solo dell’intelligenza, ma anche della libertà e della volontà, una chiara coscienza dell’identità ricevuta nell’Ordinazione Sacerdotale, una disponibilità incondizionata a condurre il gregge affidato là dove il Signore vuole e non nella direzione che, apparentemente, sembra più conveniente o più facile. Ciò richiede, anzitutto, la continua e progressiva disponibilità a lasciare che Cristo stesso governi l’esistenza sacerdotale dei presbiteri. Infatti, nessuno è realmente capace di pascere il gregge di Cristo, se non vive una profonda e reale obbedienza a Cristo e alla Chiesa, e la stessa docilità del Popolo ai suoi sacerdoti dipende dalla docilità dei sacerdoti verso Cristo; per questo alla base del ministero pastorale c’è sempre l’incontro personale e costante con il Signore, la conoscenza profonda di Lui, il conformare la propria volontà alla volontà di Cristo.
Negli ultimi decenni, si è utilizzato spesso l’aggettivo “pastorale” quasi in opposizione al concetto di “gerarchico”, così come, nella medesima contrapposizione, è stata interpretata anche l’idea di “comunione”.
E’ forse questo il punto dove può essere utile una breve osservazione sulla parola “gerarchia”, che è la designazione tradizionale della struttura di autorità sacramentale nella Chiesa, ordinata secondo i tre livelli del Sacramento dell’Ordine: episcopato, presbiterato, diaconato.
Nell’opinione pubblica prevale, per questa realtà “gerarchia”, l’elemento di subordinazione e l’elemento giuridico; perciò a molti l’idea di gerarchia appare in contrasto con la flessibilità e la vitalità del senso pastorale e anche contraria all’umiltà del Vangelo. Ma questo è un male inteso senso della gerarchia, storicamente anche causato da abusi di autorità e da carrierismo, che sono appunto abusi e non derivano dall’essere stesso della realtà “gerarchia”. L’opinione comune è che “gerarchia” sia sempre qualcosa di legato al dominio e così non corrispondente al vero senso della Chiesa, dell’unità nell’amore di Cristo. Ma, come ho detto, questa è un’interpretazione sbagliata, che ha origine in abusi della storia, ma non risponde al vero significato di quello che è la gerarchia. Cominciamo con la parola.
Generalmente, si dice che il significato della parola gerarchia sarebbe “sacro dominio”, ma il vero significato non è questo, è “sacra origine”, cioè: questa autorità non viene dall’uomo stesso, ma ha origine nel sacro, nel Sacramento; sottomette quindi la persona alla vocazione, al mistero di Cristo; fa del singolo un servitore di Cristo e solo in quanto servo di Cristo questi può governare, guidare per Cristo e con Cristo. Perciò chi entra nel sacro Ordine del Sacramento, la “gerarchia”, non è un autocrate, ma entra in un legame nuovo di obbedienza a Cristo: è legato a Lui in comunione con gli altri membri del sacro Ordine, del Sacerdozio.
E anche il Papa - punto di riferimento di tutti gli altri Pastori e della comunione della Chiesa - non può fare quello che vuole; al contrario, il Papa è custode dell’obbedienza a Cristo, alla sua parola riassunta nella “regula fidei”, nel Credo della Chiesa, e deve precedere nell’obbedienza a Cristo e alla sua Chiesa. Gerarchia implica quindi un triplice legame: quello, innanzitutto, con Cristo e l’ordine dato dal Signore alla sua Chiesa; poi il legame con gli altri Pastori nell’unica comunione della Chiesa; e, infine, il legame con i fedeli affidati al singolo, nell’ordine della Chiesa.
Quindi, si capisce che comunione e gerarchia non sono contrarie l’una all’altra, ma si condizionano. Sono insieme una cosa sola (comunione gerarchica). Il Pastore è quindi tale proprio guidando e custodendo il gregge, e talora impedendo che esso si disperda. Al di fuori di una visione chiaramente ed esplicitamente soprannaturale, non è comprensibile il compito di governare proprio dei sacerdoti. Esso, invece, sostenuto dal vero amore per la salvezza di ciascun fedele, è particolarmente prezioso e necessario anche nel nostro tempo. Se il fine è portare l’annuncio di Cristo e condurre gli uomini all’incontro salvifico con Lui perché abbiano la vita, il compito di guidare si configura come un servizio vissuto in una donazione totale per l’edificazione del gregge nella verità e nella santità, spesso andando controcorrente e ricordando che chi è il più grande si deve fare come il più piccolo, e colui che governa, come colui che serve (cfr Lumen gentium, 27).
Dove può attingere oggi un sacerdote la forza per tale esercizio del proprio ministero, nella piena fedeltà a Cristo e alla Chiesa, con una dedizione totale al gregge? La risposta è una sola: in Cristo Signore.
Il modo di governare di Gesù non è quello del dominio, ma è l’umile ed amoroso servizio della Lavanda dei piedi, e la regalità di Cristo sull’universo non è un trionfo terreno, ma trova il suo culmine sul legno della Croce, che diventa giudizio per il mondo e punto di riferimento per l’esercizio dell’autorità che sia vera espressione della carità pastorale. I santi, e tra essi san Giovanni Maria Vianney, hanno esercitato con amore e dedizione il compito di curare la porzione del Popolo di Dio loro affidata, mostrando anche di essere uomini forti e determinati, con l’unico obiettivo di promuovere il vero bene delle anime, capaci di pagare di persona, fino al martirio, per rimanere fedeli alla verità e alla giustizia del Vangelo.
Cari sacerdoti, «pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri [...], facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,2). Dunque, non abbiate paura di guidare a Cristo ciascuno dei fratelli che Egli vi ha affidati, sicuri che ogni parola ed ogni atteggiamento, se discendono dall’obbedienza alla volontà di Dio, porteranno frutto; sappiate vivere apprezzando i pregi e riconoscendo i limiti della cultura in cui siamo inseriti, con la ferma certezza che l’annuncio del Vangelo è il maggiore servizio che si può fare all’uomo. Non c’è, infatti, bene più grande, in questa vita terrena, che condurre gli uomini a Dio, risvegliare la fede, sollevare l’uomo dall’inerzia e dalla disperazione, dare la speranza che Dio è vicino e guida la storia personale e del mondo: questo, in definitiva, è il senso profondo ed ultimo del compito di governare che il Signore ci ha affidato. Si tratta di formare Cristo nei credenti, attraverso quel processo di santificazione che è conversione dei criteri, della scala di valori, degli atteggiamenti, per lasciare che Cristo viva in ogni fedele. San Paolo così riassume la sua azione pastorale: “figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi” (Gal 4,19).
Cari fratelli e sorelle, vorrei invitarvi a pregare per me, Successore di Pietro, che ho uno specifico compito nel governare la Chiesa di Cristo, come pure per tutti i vostri Vescovi e sacerdoti. Pregate perché sappiamo prenderci cura di tutte le pecore, anche quelle smarrite, del gregge a noi affidato. A voi, cari sacerdoti, rivolgo il cordiale invito alle Celebrazioni conclusive dell’Anno Sacerdotale, il prossimo 9, 10 e 11 giugno, qui a Roma: mediteremo sulla conversione e sulla missione, sul dono dello Spirito Santo e sul rapporto con Maria Santissima, e rinnoveremo le nostre promesse sacerdotali, sostenuti da tutto il Popolo di Dio. Grazie!
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mercoledì 22 giugno 2016
Benedetto XVI spiega il secondo compito del sacerdote: quello di santificare (munus sanctificandi). YouTube
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Il 5 maggio 2010, in occasione dell'udienza generale, Benedetto XVI si soffermò sul secondo compito del sacerdote: quello di santificare. Grazie a Gemma per questo ulteriore regalo :-)
Riascoltiamo e rileggiamo:
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 5 maggio 2010
Munus sanctificandi
Cari fratelli e sorelle,
domenica scorsa, nella mia Visita Pastorale a Torino, ho avuto la gioia di sostare in preghiera davanti alla sacra Sindone, unendomi agli oltre due milioni di pellegrini che durante la solenne Ostensione di questi giorni, hanno potuto contemplarla. Quel sacro Telo può nutrire ed alimentare la fede e rinvigorire la pietà cristiana, perché spinge ad andare al Volto di Cristo, al Corpo del Cristo crocifisso e risorto, a contemplare il Mistero Pasquale, centro del Messaggio cristiano. Del Corpo di Cristo risorto, vivo e operante nella storia (cfr Rm 12,5), noi, cari fratelli e sorelle, siamo membra vive, ciascuno secondo la propria funzione, con il compito cioè che il Signore ha voluto affidarci.
Oggi, in questa catechesi, vorrei ritornare ai compiti specifici dei sacerdoti, che, secondo la tradizione, sono essenzialmente tre: insegnare, santificare e governare. In una delle catechesi precedenti ho parlato sulla prima di queste tre missioni: l’insegnamento, l’annuncio della verità, l’annuncio del Dio rivelato in Cristo, o – con altre parole – il compito profetico di mettere l’uomo in contatto con la verità, di aiutarlo a conoscere l’essenziale della sua vita, della realtà stessa.
Oggi vorrei soffermarmi brevemente con voi sul secondo compito che ha il sacerdote, quello di santificare gli uomini, soprattutto mediante i Sacramenti e il culto della Chiesa. Qui dobbiamo innanzitutto chiederci: Che cosa vuol dire la parola “Santo”?
La risposta è: “Santo” è la qualità specifica dell’essere di Dio, cioè assoluta verità, bontà, amore, bellezza – luce pura. Santificare una persona significa quindi metterla in contatto con Dio, con questo suo essere luce, verità, amore puro. E’ ovvio che tale contatto trasforma la persona. Nell’antichità c’era questa ferma convinzione: Nessuno può vedere Dio senza morire subito. Troppo grande è la forza di verità e di luce! Se l’uomo tocca questa corrente assoluta, non sopravvive. D’altra parte c’era anche la convinzione: Senza un minimo contatto con Dio l’uomo non può vivere. Verità, bontà, amore sono condizioni fondamentali del suo essere. La questione è: Come può trovare l’uomo quel contatto con Dio, che è fondamentale, senza morire sopraffatto dalla grandezza dell’essere divino? La fede della Chiesa ci dice che Dio stesso crea questo contatto, che ci trasforma man mano in vere immagini di Dio.
Così siamo di nuovo arrivati al compito del sacerdote di “santificare”. Nessun uomo da sé, a partire dalla sua propria forza può mettere l’altro in contatto con Dio. Parte essenziale della grazia del sacerdozio è il dono, il compito di creare questo contatto. Questo si realizza nell’annuncio della parola di Dio, nella quale la sua luce ci viene incontro. Si realizza in un modo particolarmente denso nei Sacramenti.
L’immersione nel Mistero pasquale di morte e risurrezione di Cristo avviene nel Battesimo, è rafforzata nella Confermazione e nella Riconciliazione, è alimentata dall’Eucaristia, Sacramento che edifica la Chiesa come Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo (cfr GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. Pastores gregis, n. 32). E’ quindi Cristo stesso che rende santi, cioè ci attira nella sfera di Dio. Ma come atto della sua infinita misericordia chiama alcuni a “stare” con Lui (cfr Mc 3,14) e diventare, mediante il Sacramento dell’Ordine, nonostante la povertà umana, partecipi del suo stesso Sacerdozio, ministri di questa santificazione, dispensatori dei suoi misteri, “ponti” dell’incontro con Lui, della sua mediazione tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio (cfr PO, 5).
Negli ultimi decenni, vi sono state tendenze orientate a far prevalere, nell’identità e nella missione del sacerdote, la dimensione dell’annuncio, staccandola da quella della santificazione; spesso si è affermato che sarebbe necessario superare una pastorale meramente sacramentale. Ma è possibile esercitare autenticamente il Ministero sacerdotale “superando” la pastorale sacramentale? Che cosa significa propriamente per i sacerdoti evangelizzare, in che cosa consiste il cosiddetto primato dell’annuncio?
Come riportano i Vangeli, Gesù afferma che l’annuncio del Regno di Dio è lo scopo della sua missione; questo annuncio, però, non è solo un “discorso”, ma include, nel medesimo tempo, il suo stesso agire; i segni, i miracoli che Gesù compie indicano che il Regno viene come realtà presente e che coincide alla fine con la sua stessa persona, con il dono di se, come abbiamo sentito oggi nella lettura del Vangelo.
E lo stesso vale per il ministro ordinato: egli, il sacerdote, rappresenta Cristo, l’Inviato del Padre, ne continua la sua missione, mediante la “parola” e il “sacramento”, in questa totalità di corpo e anima, di segno e parola. Sant’Agostino, in una lettera al Vescovo Onorato di Thiabe, riferendosi ai sacerdoti afferma: “Facciano dunque i servi di Cristo, i ministri della parola e del sacramento di Lui, ciò che egli comandò o permise” (Epist. 228, 2). E’ necessario riflettere se, in taluni casi, l’aver sottovalutato l’esercizio fedele del munus sanctificandi, non abbia forse rappresentato un indebolimento della stessa fede nell’efficacia salvifica dei Sacramenti e, in definitiva, nell’operare attuale di Cristo e del suo Spirito, attraverso la Chiesa, nel mondo.
Chi dunque salva il mondo e l’uomo? L’unica risposta che possiamo dare è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si attualizza il Mistero della morte e risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? Nell’azione di Cristo mediante la Chiesa, in particolare nel Sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale redentrice del Figlio di Dio, nel Sacramento della Riconciliazione, in cui dalla morte del peccato si torna alla vita nuova, e in ogni altro atto sacramentale di santificazione (cfr PO, 5). E’ importante, quindi, promuovere una catechesi adeguata per aiutare i fedeli a comprendere il valore dei Sacramenti, ma è altrettanto necessario, sull’esempio del Santo Curato d’Ars, essere disponibili, generosi e attenti nel donare ai fratelli i tesori di grazia che Dio ha posto nelle nostre mani, e dei quali non siamo i “padroni”, ma custodi ed amministratori.
Soprattutto in questo nostro tempo, nel quale, da un lato, sembra che la fede vada indebolendosi e, dall’altro, emergono un profondo bisogno e una diffusa ricerca di spiritualità, è necessario che ogni sacerdote ricordi che nella sua missione l’annuncio missionario e il culto e i sacramenti non sono mai separati e promuova una sana pastorale sacramentale, per formare il Popolo di Dio e aiutarlo a vivere in pienezza la Liturgia, il culto della Chiesa, i Sacramenti come doni gratuiti di Dio, atti liberi ed efficaci della sua azione di salvezza.
Come ricordavo nella santa Messa Crismale di quest’anno: “Centro del culto della Chiesa è il Sacramento. Sacramento significa che in primo luogo non siamo noi uomini a fare qualcosa, ma Dio in anticipo ci viene incontro con il suo agire, ci guarda e ci conduce verso di Sé. (...) Dio ci tocca per mezzo di realtà materiali (...) che Egli assume al suo servizio, facendone strumenti dell’incontro tra noi e Lui stesso” (S. Messa Crismale, 1 aprile 2010). La verità secondo la quale nel Sacramento “non siamo noi uomini a fare qualcosa” riguarda, e deve riguardare, anche la coscienza sacerdotale: ciascun presbitero sa bene di essere strumento necessario all’agire salvifico di Dio, ma pur sempre strumento. Tale coscienza deve rendere umili e generosi nell’amministrazione dei Sacramenti, nel rispetto delle norme canoniche, ma anche nella profonda convinzione che la propria missione è far sì che tutti gli uomini, uniti a Cristo, possano offrirsi a Dio come ostia viva e santa a Lui gradita (cfr Rm 12,1). Esemplare, circa il primato del munus sanctificandi e della giusta interpretazione della pastorale sacramentale, è ancora san Giovanni Maria Vianney, il quale, un giorno, di fronte ad un uomo che diceva di non aver fede e desiderava discutere con lui, il parroco rispose: “Oh! amico mio, v’indirizzate assai male, io non so ragionare... ma se avete bisogno di qualche consolazione, mettetevi là... (il suo dito indicava l’inesorabile sgabello [del confessionale]) e credetemi, che molti altri vi si sono messi prima di voi, e non ebbero a pentirsene” (cfr Monnin A., Il Curato d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. I, Torino 1870, pp. 163-164).
Cari sacerdoti, vivete con gioia e con amore la Liturgia e il culto: è azione che il Risorto compie nella potenza dello Spirito Santo in noi, con noi e per noi. Vorrei rinnovare l’invito fatto recentemente a “tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare il Sacramento della Riconciliazione, ma anche come luogo in cui ‘abitare’ più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto, sentirsi amato e compreso da Dio e sperimentare la presenza della Misericordia Divina, accanto alla Presenza reale nell’Eucaristia” (Discorso alla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010). E vorrei anche invitare ogni sacerdote a celebrare e vivere con intensità l’Eucaristia, che è nel cuore del compito di santificare; è Gesù che vuole stare con noi, vivere in noi, donarci se stesso, mostrarci l’infinita misericordia e tenerezza di Dio; è l’unico Sacrificio di amore di Cristo che si rende presente, si realizza tra di noi e giunge fino al trono della Grazia, alla presenza di Dio, abbraccia l’umanità e ci unisce a Lui (cfr Discorso al Clero di Roma, 18 febbraio 2010).
E il sacerdote è chiamato ad essere ministro di questo grande Mistero, nel Sacramento e nella vita. Se “la grande tradizione ecclesiale ha giustamente svincolato l’efficacia sacramentale dalla concreta situazione esistenziale del singolo sacerdote, e così le legittime attese dei fedeli sono adeguatamente salvaguardate”, ciò non toglie nulla “alla necessaria, anzi indispensabile tensione verso la perfezione morale, che deve abitare ogni cuore autenticamente sacerdotale”: c’è anche un esempio di fede e di testimonianza di santità, che il Popolo di Dio si attende giustamente dai suoi Pastori (cfr Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Congr. per il Clero, 16 marzo 2009). Ed è nella celebrazione dei Santi Misteri che il sacerdote trova la radice della sua santificazione (cfr PO, 12-13).
Cari amici, siate consapevoli del grande dono che i sacerdoti sono per la Chiesa e per il mondo; attraverso il loro ministero, il Signore continua a salvare gli uomini, a rendersi presente, a santificare. Sappiate ringraziare Dio, e soprattutto siate vicini ai vostri sacerdoti con la preghiera e con il sostegno, specialmente nelle difficoltà, affinché siano sempre più Pastori secondo il cuore di Dio. Grazie.
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martedì 21 giugno 2016
Benedetto XVI spiega il primo compito del sacerdote: quello di insegnare (munus docendi). YouTube
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Buongiorno cari amici! Grazie a Gemma ritorniamo a sei anni fa, in pieno svolgimento dell'Anno Sacerdotale.
Il 14 aprile 2010, in occasione dell'udienza generale, Benedetto XVI spiegò il primo dei tre compiti del sacerdote: quello di insegnare.
Riascoltiamo e rileggiamolo:
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 14 aprile 2010
Munus docendi
Cari amici,
in questo periodo pasquale, che ci conduce alla Pentecoste e ci avvia anche alle celebrazioni di chiusura dell’Anno Sacerdotale, in programma il 9, 10 e 11 giugno prossimo, mi è caro dedicare ancora alcune riflessioni al tema del Ministero ordinato, soffermandomi sulla realtà feconda della configurazione del sacerdote a Cristo Capo, nell’esercizio dei tria munera che riceve, cioè dei tre uffici di insegnare, santificare e governare.
Per capire che cosa significhi agire in persona Christi Capitis - in persona di Cristo Capo - da parte del sacerdote, e per capire anche quali conseguenze derivino dal compito di rappresentare il Signore, specialmente nell’esercizio di questi tre uffici, bisogna chiarire anzitutto che cosa si intenda per “rappresentanza”.
Il sacerdote rappresenta Cristo. Cosa vuol dire, cosa significa “rappresentare” qualcuno? Nel linguaggio comune, vuol dire – generalmente - ricevere una delega da una persona per essere presente al suo posto, parlare e agire al suo posto, perché colui che viene rappresentato è assente dall’azione concreta. Ci domandiamo: il sacerdote rappresenta il Signore nello stesso modo? La risposta è no, perché nella Chiesa Cristo non è mai assente, la Chiesa è il suo corpo vivo e il Capo della Chiesa è lui, presente ed operante in essa. Cristo non è mai assente, anzi è presente in un modo totalmente libero dai limiti dello spazio e del tempo, grazie all’evento della Risurrezione, che contempliamo in modo speciale in questo tempo di Pasqua.
Pertanto, il sacerdote che agisce in persona Christi Capitis e in rappresentanza del Signore, non agisce mai in nome di un assente, ma nella Persona stessa di Cristo Risorto, che si rende presente con la sua azione realmente efficace. Agisce realmente e realizza ciò che il sacerdote non potrebbe fare: la consacrazione del vino e del pane perché siano realmente presenza del Signore, l’assoluzione dei peccati.
Il Signore rende presente la sua propria azione nella persona che compie tali gesti. Questi tre compiti del sacerdote - che la Tradizione ha identificato nelle diverse parole di missione del Signore: insegnare, santificare e governare - nella loro distinzione e nella loro profonda unità sono una specificazione di questa rappresentazione efficace. Essi sono in realtà le tre azioni del Cristo risorto, lo stesso che oggi nella Chiesa e nel mondo insegna e così crea fede, riunisce il suo popolo, crea presenza della verità e costruisce realmente la comunione della Chiesa universale; e santifica e guida.
Il primo compito del quale vorrei parlare oggi è il munus docendi, cioè quello di insegnare. Oggi, in piena emergenza educativa, il munus docendi della Chiesa, esercitato concretamente attraverso il ministero di ciascun sacerdote, risulta particolarmente importante.
Viviamo in una grande confusione circa le scelte fondamentali della nostra vita e gli interrogativi su che cosa sia il mondo, da dove viene, dove andiamo, che cosa dobbiamo fare per compiere il bene, come dobbiamo vivere, quali sono i valori realmente pertinenti. In relazione a tutto questo esistono tante filosofie contrastanti, che nascono e scompaiono, creando una confusione circa le decisioni fondamentali, come vivere, perché non sappiamo più, comunemente, da che cosa e per che cosa siamo fatti e dove andiamo. In questa situazione si realizza la parola del Signore, che ebbe compassione della folla perché erano come pecore senza pastore. (cfr Mc 6, 34). Il Signore aveva fatto questa costatazione quando aveva visto le migliaia di persone che lo seguivano nel deserto perché, nella diversità delle correnti di quel tempo, non sapevano più quale fosse il vero senso della Scrittura, che cosa diceva Dio. Il Signore, mosso da compassione, ha interpretato la parola di Dio, egli stesso è la parola di Dio, e ha dato così un orientamento. Questa è la funzione in persona Christi del sacerdote: rendere presente, nella confusione e nel disorientamento dei nostri tempi, la luce della parola di Dio, la luce che è Cristo stesso in questo nostro mondo.
Quindi il sacerdote non insegna proprie idee, una filosofia che lui stesso ha inventato, ha trovato o che gli piace; il sacerdote non parla da sé, non parla per sé, per crearsi forse ammiratori o un proprio partito; non dice cose proprie, proprie invenzioni, ma, nella confusione di tutte le filosofie, il sacerdote insegna in nome di Cristo presente, propone la verità che è Cristo stesso, la sua parola, il suo modo di vivere e di andare avanti.
Per il sacerdote vale quanto Cristo ha detto di se stesso: “La mia dottrina non è mia” (Gv, 7, 16); Cristo, cioè, non propone se stesso, ma, da Figlio, è la voce, la parola del Padre. Anche il sacerdote deve sempre dire e agire così: “la mia dottrina non è mia, non propago le mie idee o quanto mi piace, ma sono bocca e cuore di Cristo e rendo presente questa unica e comune dottrina, che ha creato la Chiesa universale e che crea vita eterna”.
Questo fatto, che il sacerdote cioè non inventa, non crea e non proclama proprie idee in quanto la dottrina che annuncia non è sua, ma di Cristo, non significa, d’altra parte, che egli sia neutro, quasi come un portavoce che legge un testo di cui, forse, non si appropria. Anche in questo caso vale il modello di Cristo, il quale ha detto: Io non sono da me e non vivo per me, ma vengo dal Padre e vivo per il Padre. Perciò, in questa profonda identificazione, la dottrina di Cristo è quella del Padre e lui stesso è uno col Padre.
Il sacerdote che annuncia la parola di Cristo, la fede della Chiesa e non le proprie idee, deve anche dire: Io non vivo da me e per me, ma vivo con Cristo e da Cristo e perciò quanto Cristo ci ha detto diventa mia parola anche se non è mia. La vita del sacerdote deve identificarsi con Cristo e, in questo modo, la parola non propria diventa, tuttavia, una parola profondamente personale. Sant’Agostino, su questo tema, parlando dei sacerdoti, ha detto: “E noi che cosa siamo? Ministri (di Cristo), suoi servitori; perché quanto distribuiamo a voi non è cosa nostra, ma lo tiriamo fuori dalla sua dispensa. E anche noi viviamo di essa, perché siamo servi come voi” (Discorso 229/E, 4).
L’insegnamento che il sacerdote è chiamato ad offrire, le verità della fede, devono essere interiorizzate e vissute in un intenso cammino spirituale personale, così che realmente il sacerdote entri in una profonda, interiore comunione con Cristo stesso. Il sacerdote crede, accoglie e cerca di vivere, prima di tutto come proprio, quanto il Signore ha insegnato e la Chiesa ha trasmesso, in quel percorso di immedesimazione con il proprio ministero di cui san Giovanni Maria Vianney è testimone esemplare (cfr Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale). “Uniti nella medesima carità – afferma ancora sant’Agostino - siamo tutti uditori di colui che è per noi nel cielo l’unico Maestro” (Enarr. in Ps. 131, 1, 7).
Quella del sacerdote, di conseguenza, non di rado potrebbe sembrare “voce di uno che grida nel deserto” (Mc 1,3), ma proprio in questo consiste la sua forza profetica: nel non essere mai omologato, né omologabile, ad alcuna cultura o mentalità dominante, ma nel mostrare l’unica novità capace di operare un autentico e profondo rinnovamento dell’uomo, cioè che Cristo è il Vivente, è il Dio vicino, il Dio che opera nella vita e per la vita del mondo e ci dona la verità, il modo di vivere.
Nella preparazione attenta della predicazione festiva, senza escludere quella feriale, nello sforzo di formazione catechetica, nelle scuole, nelle istituzioni accademiche e, in modo speciale, attraverso quel libro non scritto che è la sua stessa vita, il sacerdote è sempre “docente”, insegna. Ma non con la presunzione di chi impone proprie verità, bensì con l’umile e lieta certezza di chi ha incontrato la Verità, ne è stato afferrato e trasformato, e perciò non può fare a meno di annunciarla. Il sacerdozio, infatti, nessuno lo può scegliere da sé, non è un modo per raggiungere una sicurezza nella vita, per conquistare una posizione sociale: nessuno può darselo, né cercarlo da sé. Il sacerdozio è risposta alla chiamata del Signore, alla sua volontà, per diventare annunciatori non di una verità personale, ma della sua verità.
Cari confratelli sacerdoti, il Popolo cristiano domanda di ascoltare dai nostri insegnamenti la genuina dottrina ecclesiale, attraverso la quale poter rinnovare l’incontro con Cristo che dona la gioia, la pace, la salvezza. La Sacra Scrittura, gli scritti dei Padri e dei Dottori della Chiesa, il Catechismo della Chiesa Cattolica costituiscono, a tale riguardo, dei punti di riferimento imprescindibili nell’esercizio del munus docendi, così essenziale per la conversione, il cammino di fede e la salvezza degli uomini. “Ordinazione sacerdotale significa: essere immersi [...] nella Verità” (Omelia per la Messa Crismale, 9 aprile 2009), quella Verità che non è semplicemente un concetto o un insieme di idee da trasmettere e assimilare, ma che è la Persona di Cristo, con la quale, per la quale e nella quale vivere e così, necessariamente, nasce anche l’attualità e la comprensibilità dell’annuncio. Solo questa consapevolezza di una Verità fatta Persona nell’Incarnazione del Figlio giustifica il mandato missionario: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). Solo se è la Verità è destinato ad ogni creatura, non è una imposizione di qualcosa, ma l’apertura del cuore a ciò per cui è creato.
Cari fratelli e sorelle, il Signore ha affidato ai Sacerdoti un grande compito: essere annunciatori della Sua Parola, della Verità che salva; essere sua voce nel mondo per portare ciò che giova al vero bene delle anime e all’autentico cammino di fede (cfr 1Cor 6,12). San Giovanni Maria Vianney sia di esempio per tutti i Sacerdoti. Egli era uomo di grande sapienza ed eroica forza nel resistere alle pressioni culturali e sociali del suo tempo per poter condurre le anime a Dio: semplicità, fedeltà ed immediatezza erano le caratteristiche essenziali della sua predicazione, trasparenza della sua fede e della sua santità. Il Popolo cristiano ne era edificato e, come accade per gli autentici maestri di ogni tempo, vi riconosceva la luce della Verità. Vi riconosceva, in definitiva, ciò che si dovrebbe sempre riconoscere in un sacerdote: la voce del Buon Pastore.
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domenica 19 giugno 2016
Benedetto XVI presenta il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, 28 giugno 2005 (YouTube)
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Buona domenica a tutti :-) La nostra Gemma ci riporta al 2005 e precisamente a un giorno molto importante nella storia del Pontificato di Joseph Ratzinger.
Il 28 giugno 2005, Vigilia della Solennità dei Santi Pietro e Paolo, Benedetto XVI presentava e "regalava" alla chiesa il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, lavoro per il quale egli si spese personalmente come Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
Rileggiamo il discorso:
PRESENTAZIONE DEL COMPENDIO DEL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Martedì, 28 giugno 2005
Carissimi Fratelli e amici,
1. «Possa Egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi » (Ef 1,18).
E’ questo l’auspicio che san Paolo innalza al Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, nel brano della lettera agli Efesini appena proclamata.
Non ringrazieremo mai abbastanza Dio, nostro Padre, per questo immenso tesoro di speranza e di gloria, che Egli nel Suo Figlio Gesù ci ha regalato. Nostro impegno costante è di lasciarci continuamente illuminare da Lui per conoscere sempre più profondamente questo Suo misterioso dono.
Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, che oggi ho la grande gioia di presentare alla Chiesa e al mondo, in questa Celebrazione orante, può e deve costituire uno strumento privilegiato per farci crescere nella conoscenza e nell’accoglienza gioiosa di tale dono divino.
2. Esso vede la luce dopo la pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, avvenuta nel 1992.
Da allora era divenuta sempre più diffusa e insistente l’esigenza di un catechismo in sintesi, breve, che contenesse tutti e soli gli elementi essenziali e fondamentali della fede e della morale cattolica, formulati in una maniera semplice, accessibile a tutti, chiara e sintetica. Ed è proprio venendo incontro a tale esigenza, che in questo ultimo ventennio sono stati effettuati, in diverse lingue e paesi, numerosi tentativi, più o meno riusciti, di sintesi del suddetto Catechismo, che hanno presentato vari problemi, riguardo non solo alla fedeltà e al rispetto della sua struttura e dei suoi contenuti, ma anche alla completezza e all’integrità della dottrina cattolica.
Si avvertiva pertanto sempre più la necessità di un testo autorevole, sicuro, completo circa gli aspetti essenziali della fede della Chiesa, in piena armonia col citato Catechismo, approvato dal Papa e destinato a tutta la Chiesa.
3. Di tale diffusa esigenza si erano fatti interpreti in particolare, nell’ottobre 2002, i partecipanti al Congresso Catechistico internazionale, i quali avevano presentato un’esplicita richiesta in tal senso al servo di Dio Giovanni Paolo II.
Sono trascorsi poco più di due anni da quando il mio Venerato Predecessore aveva deciso, nel febbraio 2003, la preparazione di tale Compendio, riconoscendolo corrispondente al bene non solo della Chiesa universale e delle Chiese particolari, ma anche del mondo d’oggi, assetato di verità. Sono stati due anni d’intenso e proficuo lavoro, che ha visto il coinvolgimento anche di tutti i Cardinali e i Presidenti delle Conferenze Episcopali, i quali, interpellati su uno degli ultimi progetti del Compendio, hanno espresso, a larghissima maggioranza, una valutazione molto positiva.
4. Oggi, in questa vigilia della Solennità dei SS. Pietro e Paolo, a quarant’anni dalla conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II, provo grande gioia nel consegnare questo Compendio, da me approvato, non solo a tutti i membri della Chiesa, qui significativamente rappresentati, nelle varie componenti, da tutti Voi che partecipate a questo solenne incontro. Ma, attraverso di Voi - Venerati Fratelli Cardinali, Vescovi, sacerdoti, catechisti e fedeli laici - desidero consegnare idealmente questo Compendio anche ad ogni persona di buona volontà, che desideri conoscere le insondabili ricchezze del mistero salvifico di Gesù Cristo.
Non si tratta certamente di un nuovo Catechismo, ma del Compendio che rispecchia fedelmente il Catechismo della Chiesa Cattolica, il quale rimane pertanto sia la fonte, da cui attingere per comprendere meglio il Compendio stesso, sia il modello, a cui guardare incessantemente per ritrovare l’esposizione armoniosa e autentica della fede e della morale cattolica, e sia il punto di riferimento, che deve stimolare l’annuncio della fede e l’elaborazione dei catechismi locali. Il Catechismo della Chiesa Cattolica mantiene, pertanto, intatta tutta la sua autorevolezza e importanza, e potrà trovare, in tale sintesi, un prezioso incoraggiamento ad essere meglio conosciuto e utilizzato come fondamentale strumento di educazione alla fede.
5. Questo Compendio è un rinnovato annuncio del Vangelo oggi. Anche per mezzo di questo testo autorevole e sicuro, la "fede che abbiamo ricevuto dalla Chiesa – come anche afferma S. Ireneo, di cui oggi celebriamo la memoria liturgica – la conserviamo con cura, perché sotto l’azione dello Spirito di Dio, essa, come un deposito di grande valore, chiuso in un vaso prezioso, continuamente ringiovanisce e fa ringiovanire anche il vaso che lo contiene" (1).
E’ la fede della Chiesa in Cristo Gesù, che il Compendio presenta. Seguendo la struttura quadripartita del Catechismo della Chiesa Cattolica, esso presenta, infatti, Cristo professato quale Figlio Unigenito del Padre, come perfetto Rivelatore della verità di Dio e come definitivo Salvatore del mondo; Cristo celebrato nei sacramenti, come fonte e sostegno della vita della Chiesa; Cristo ascoltato e seguito nell’obbedienza ai suoi comandamenti, come sorgente di esistenza nuova nella carità e nella concordia; Cristo imitato nella preghiera, come modello e maestro del nostro atteggiamento orante nei confronti del Padre.
6. Tale fede viene esposta, nel Compendio, in forma dialogica. Si intende in tal modo "riproporre – come ho scritto nell’introduzione al Compendio - un dialogo ideale tra il maestro e il discepolo, mediante una sequenza incalzante di interrogativi, che coinvolgono il lettore invitandolo a proseguire nella scoperta dei sempre nuovi aspetti della verità della sua fede. Il genere dialogico, inoltre, concorre anche ad abbreviare notevolmente il testo, riducendolo all'essenziale. Ciò potrebbe favorire l'assimilazione e l'eventuale memorizzazione dei contenuti". La brevità delle risposte favorisce la sintesi essenziale e la chiarezza della comunicazione.
7. Nel testo sono anche inserite delle immagini all’inizio della rispettiva parte o sezione. Questa scelta è finalizzata a illustrare il contenuto dottrinale del Compendio: le immagini, infatti "proclamano lo stesso messaggio che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la parola, e aiutano a risvegliare e a nutrire la fede dei credenti" (Compendio, n. 240).
Immagine e parola s'illuminano così a vicenda. L’arte «parla» sempre, almeno implicitamente, del divino, della bellezza infinita di Dio, riflessa nell’Icona per eccellenza: Cristo Signore, Immagine del Dio invisibile.
Le immagini sacre, con la loro bellezza, sono anch’esse annuncio evangelico ed esprimono lo splendore della verità cattolica, mostrando la suprema armonia tra il buono e il bello, tra la via veritatis e la via pulchritudinis. Mentre testimoniano la secolare e feconda tradizione dell’arte cristiana, sollecitano tutti, credenti e non, alla scoperta e alla contemplazione del fascino inesauribile del mistero della Redenzione, dando sempre nuovo impulso al vivace processo della sua inculturazione nel tempo.
Le stesse immagini si ritrovano nelle varie traduzioni del Compendio. Sarà questo anche un modo per identificare facilmente e riconoscere tale testo nella varietà delle lingue: l’unica fede viene professata da ciascun fedele nella molteplicità dei contesti ecclesiali e culturali.
8. Il testo alla fine comprende anche un’Appendice, costituita da alcune preghiere comuni per la Chiesa universale e da alcune formule catechistiche della fede cattolica.
La scelta opportuna di aggiungere alla fine del Compendio alcune preghiere invita a ritrovare nella Chiesa un comune modo di pregare, non solo a livello personale, ma anche a livello comunitario.
In ognuna delle traduzioni, la maggior parte delle preghiere saranno presentate anche nella lingua latina. Il loro apprendimento, anche in questa lingua, faciliterà il pregare insieme da parte dei fedeli cristiani appartenenti a lingue diverse, specialmente quando si incontreranno insieme per particolari circostanze.
Come già dissi, nel 1997, in occasione della presentazione al mio Venerato Predecessore dell’edizione tipica latina del Catechismo della Chiesa Cattolica, "proprio nella molteplicità delle lingue e delle culture, il latino, per tanti secoli veicolo e strumento della cultura cristiana, garantisce non solo la continuità con le nostre radici, ma rimane quanto mai rilevante per rinsaldare i legami dell'unità della fede nella comunione della Chiesa".
9. Ringrazio di vero cuore tutti coloro che hanno lavorato alla realizzazione di questa importante opera, in particolare i Cardinali membri della speciale Commissione, i redattori, gli esperti: tutti hanno collaborato con grande dedizione e competenza. Il Signore Dio, che vede ogni cosa, li ricompensi e li benedica nella Sua infinita benevolenza.
Questo Compendio, frutto della loro fatica ma soprattutto dono che Dio fa alla Chiesa in questo terzo millennio, dia nuovo slancio all’evangelizzazione e alla catechesi, da cui dipendono "non solo l’estensione geografica e l’aumento numerico, ma anche, e più ancora, la crescita interiore della Chiesa, la sua corrispondenza al disegno divino" (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 7).
Maria Ss.ma e i Santi Apostoli Pietro e Paolo sostengano con la loro intercessione questo auspicio per il bene della Chiesa e dell’umanità.
E a tutti Voi imparto di cuore la mia Benedizione Apostolica.
(1) Ireneo di Lione, Adversus haereses, 1,10,2: Sc 264,158-160
© Copyright 2005 - Libreria Editrice Vaticana
venerdì 10 giugno 2016
Benedetto XVI parla di Mosè, del vitello d'oro e della tentazione di costruirsi un Dio manovrabile, a portata dell'uomo (YouTube)
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La nostra Gemma ci fa un bellissimo regalo, cari amici :-)
Il 1° giugno 2011, in udienza generale, Benedetto XVI tenne una delle sue memorabili catechesi quanto mai attuale. Bellissima la descrizione di Mosè come uomo di preghiera e degna di nota la spiegazione dell'episodio del vitello d'oro e della tentazione, sempre presente, di costruire un Dio "su misura", senza troppi impegni e/o parole urticanti agli occhi del mondo.
La catechesi integrale si trova qui.
Rileggiamo.
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 1° giugno 2011
L'uomo in preghiera (5)
L’intercessione di Mosè per il popolo (Es 32,7-14)
Cari fratelli e sorelle,
leggendo l’Antico Testamento, una figura risalta tra le altre: quella di Mosè, proprio come uomo di preghiera. Mosè, il grande profeta e condottiero del tempo dell’Esodo, ha svolto la sua funzione di mediatore tra Dio e Israele facendosi portatore, presso il popolo, delle parole e dei comandi divini, conducendolo verso la libertà della Terra Promessa, insegnando agli Israeliti a vivere nell’obbedienza e nella fiducia verso Dio durante la lunga permanenza nel deserto, ma anche, e direi soprattutto, pregando.
Egli prega per il Faraone quando Dio, con le piaghe, tentava di convertire il cuore degli Egiziani (cfr Es 8–10); chiede al Signore la guarigione della sorella Maria colpita dalla lebbra (cfr Nm 12,9-13), intercede per il popolo che si era ribellato, impaurito dal resoconto degli esploratori (cfr Nm 14,1-19), prega quando il fuoco stava per divorare l’accampamento (cfr Nm 11,1-2) e quando serpenti velenosi facevano strage (cfr Nm 21,4-9); si rivolge al Signore e reagisce protestando quando il peso della sua missione si era fatto troppo pesante (cfr Nm 11,10-15); vede Dio e parla con Lui «faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (cfr Es24,9-17; 33,7-23; 34,1-10.28-35).
Anche quando il popolo, al Sinai, chiede ad Aronne di fare il vitello d’oro, Mosè prega, esplicando in modo emblematico la propria funzione di intercessore.
L’episodio è narrato nel capitolo 32 del Libro dell’Esodo ed ha un racconto parallelo in Deuteronomio al capitolo 9. È su questo episodio che vorrei soffermarmi nella catechesi di oggi, e in particolare sulla preghiera di Mosè che troviamo nella narrazione dell’Esodo. Il popolo di Israele si trovava ai piedi del Sinai mentre Mosè, sul monte, attendeva il dono delle tavole della Legge, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti (cfr Es 24,18; Dt 9,9). Il numero quaranta ha valore simbolico e significa la totalità dell’esperienza, mentre con il digiuno si indica che la vita viene da Dio, è Lui che la sostiene. L’atto del mangiare, infatti, implica l’assunzione del nutrimento che ci sostiene; perciò digiunare, rinunciando al cibo, acquista, in questo caso, un significato religioso: è un modo per indicare che non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore (cf Dt 8,3). Digiunando, Mosè mostra di attendere il dono della Legge divina come fonte di vita: essa svela la volontà di Dio e nutre il cuore dell’uomo, facendolo entrare in un’alleanza con l’Altissimo, che è fonte della vita, è la vita stessa.
Ma mentre il Signore, sul monte, dona a Mosè la Legge, ai piedi del monte il popolo la trasgredisce. Incapaci di resistere all’attesa e all’assenza del mediatore, gli Israeliti chiedono ad Aronne: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es 32,1).
Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosè, il mediatore, è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile, toccabile, del Signore, e trova nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile, alla portata dell’uomo.
È questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti.
Quanto avviene al Sinai mostra tutta la stoltezza e l’illusoria vanità di questa pretesa perché, come ironicamente afferma il Salmo106, «scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba» (Sal 106,20).
Perciò il Signore reagisce e ordina a Mosè di scendere dal monte, rivelandogli quanto il popolo stava facendo e terminando con queste parole: «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,10). Come con Abramo a proposito di Sodoma e Gomorra, anche ora Dio svela a Mosè che cosa intende fare, quasi non volesse agire senza il suo consenso (cfr Am 3,7). Dice: «lascia che si accenda la mia ira». In realtà, questo «lascia che si accenda la mia ira» è detto proprio perché Mosè intervenga e Gli chieda di non farlo, rivelando così che il desiderio di Dio è sempre di salvezza. Come per le due città dei tempi di Abramo, la punizione e la distruzione, in cui si esprime l’ira di Dio come rifiuto del male, indicano la gravità del peccato commesso; allo stesso tempo, la richiesta dell’intercessore intende manifestare la volontà di perdono del Signore. Questa è la salvezza di Dio, che implica misericordia, ma insieme anche denuncia della verità del peccato, del male che esiste, così che il peccatore, riconosciuto e rifiutato il proprio male, possa lasciarsi perdonare e trasformare da Dio. La preghiera di intercessione rende così operante, dentro la realtà corrotta dell’uomo peccatore, la misericordia divina, che trova voce nella supplica dell’orante e si fa presente attraverso di lui lì dove c’è bisogno di salvezza.
La supplica di Mosè è tutta incentrata sulla fedeltà e la grazia del Signore. Egli si riferisce dapprima alla storia di redenzione che Dio ha iniziato con l’uscita d’Israele dall’Egitto, per poi fare memoria dell’antica promessa data ai Padri. Il Signore ha operato salvezza liberando il suo popolo dalla schiavitù egiziana; perché allora – chiede Mosè – «gli Egiziani dovranno dire: “Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla faccia della terra”?» (Es 32,12).
L’opera di salvezza iniziata deve essere completata; se Dio facesse perire il suo popolo, ciò potrebbe essere interpretato come il segno di un’incapacità divina di portare a compimento il progetto di salvezza. Dio non può permettere questo: Egli è il Signore buono che salva, il garante della vita, è il Dio di misericordia e perdono, di liberazione dal peccato che uccide. E così Mosè fa appello a Dio, alla vita interiore di Dio contro la sentenza esteriore. Ma allora, argomenta Mosè con il Signore, se i suoi eletti periscono, anche se sono colpevoli, Egli potrebbe apparire incapace di vincere il peccato. E questo non si può accettare. Mosè ha fatto esperienza concreta del Dio di salvezza, è stato inviato come mediatore della liberazione divina e ora, con la sua preghiera, si fa interprete di una doppia inquietudine, preoccupato per la sorte del suo popolo, ma insieme anche preoccupato per l’onore che si deve al Signore, per la verità del suo nome. L’intercessore infatti vuole che il popolo di Israele sia salvo, perché è il gregge che gli è stato affidato, ma anche perché in quella salvezza si manifesti la vera realtà di Dio. Amore dei fratelli e amore di Dio si compenetrano nella preghiera di intercessione, sono inscindibili. Mosè, l’intercessore, è l’uomo teso tra due amori, che nella preghiera si sovrappongono in un unico desiderio di bene.
Poi, Mosè si appella alla fedeltà di Dio, rammentandogli le sue promesse: «Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”» (Es 32,13). Mosè fa memoria della storia fondatrice delle origini, dei Padri del popolo e della loro elezione, totalmente gratuita, in cui Dio solo aveva avuto l’iniziativa. Non a motivo dei loro meriti, essi avevano ricevuto la promessa, ma per la libera scelta di Dio e del suo amore (cfr Dt 10,15). E ora, Mosè chiede che il Signore continui nella fedeltà la sua storia di elezione e di salvezza, perdonando il suo popolo. L’intercessore non accampa scuse per il peccato della sua gente, non elenca presunti meriti né del popolo né suoi, ma si appella alla gratuità di Dio: un Dio libero, totalmente amore, che non cessa di cercare chi si è allontanato, che resta sempre fedele a se stesso e offre al peccatore la possibilità di tornare a Lui e di diventare, con il perdono, giusto e capace di fedeltà. Mosè chiede a Dio di mostrarsi più forte anche del peccato e della morte, e con la sua preghiera provoca questo rivelarsi divino. Mediatore di vita, l’intercessore solidarizza con il popolo; desideroso solo della salvezza che Dio stesso desidera, egli rinuncia alla prospettiva di diventare un nuovo popolo gradito al Signore. La frase che Dio gli aveva rivolto, «di te invece farò una grande nazione», non è neppure presa in considerazione dall’“amico” di Dio, che invece è pronto ad assumere su di sé non solo la colpa della sua gente, ma tutte le sue conseguenze. Quando, dopo la distruzione del vitello d’oro, tornerà sul monte per chiedere di nuovo la salvezza per Israele, dirà al Signore: «E ora, se tu perdonassi il loro peccato! Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto» (v. 32).
Con la preghiera, desiderando il desiderio di Dio, l’intercessore entra sempre più profondamente nella conoscenza del Signore e della sua misericordia e diventa capace di un amore che giunge fino al dono totale di sé. In Mosè, che sta sulla cima del monte faccia a faccia con Dio e si fa intercessore per il suo popolo e offre se stesso - «cancellami» -, i Padri della Chiesa hanno visto una prefigurazione di Cristo, che sull'alta cima della croce realmente sta davanti a Dio, non solo come amico ma come Figlio. E non solo si offre - «cancellami» -, ma con il suo cuore trafitto si fa cancellare, diventa, come dice san Paolo stesso, peccato, porta su di sé i nostri peccati per rendere salvi noi; la sua intercessione è non solo solidarietà, ma identificazione con noi: porta tutti noi nel suo corpo. E così tutta la sua esistenza di uomo e di Figlio è grido al cuore di Dio, è perdono, ma perdono che trasforma e rinnova.
Penso che dobbiamo meditare questa realtà.
Cristo sta davanti al volto di Dio e prega per me. La sua preghiera sulla Croce è contemporanea a tutti gli uomini, contemporanea a me: Egli prega per me, ha sofferto e soffre per me, si è identificato con me prendendo il nostro corpo e l'anima umana. E ci invita a entrare in questa sua identità, facendoci un corpo, uno spirito con Lui, perché dall'alta cima della Croce Egli ha portato non nuove leggi, tavole di pietra, ma ha portato se stesso, il suo corpo e il suo sangue, come nuova alleanza. Così ci fa consanguinei con Lui, un corpo con Lui, identificati con Lui. Ci invita a entrare in questa identificazione, a essere uniti con Lui nel nostro desiderio di essere un corpo, uno spirito con Lui. Preghiamo il Signore perché questa identificazione ci trasformi, ci rinnovi, perché il perdono è rinnovamento, è trasformazione.
Vorrei concludere questa catechesi con le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Roma: «Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? […] né morte né vita, né angeli né principati […] né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,33-35.38.39).
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mercoledì 1 giugno 2016
Benedetto XVI e l''esempio di San Giustino che si oppose alle mode del tempo (YouTube)
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Grazie al lavoro della nostra Gemma rendiamo omaggio a San Giustino che la Chiesa ricorda proprio oggi.
Il 21 marzo 2007, Benedetto XVI tenne una straordinaria catechesi su questa straordinaria figura, particolarmente attuale per i tempi che stiamo vivendo. Come sempre Joseph Ratzinger si rivela profetico e avanti anni luce rispetto all'attualità :-)
Il testo della catechesi si trova qui.
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 21 marzo 2007
San Giustino, filosofo e martire
Cari fratelli e sorelle,
stiamo in queste catechesi riflettendo sulle grandi figure della Chiesa nascente. Oggi parliamo di san Giustino, filosofo e martire, il più importante tra i Padri apologisti del secondo secolo. La parola «apologisti» designa quegli antichi scrittori cristiani che si proponevano di difendere la nuova religione dalle pesanti accuse dei pagani e degli Ebrei, e di diffondere la dottrina cristiana in termini adatti alla cultura del proprio tempo. Così negli apologisti è presente una duplice sollecitudine: quella, più propriamente apologetica, di difendere il cristianesimo nascente (apologhía in greco significa appunto «difesa») e quella propositiva, «missionaria», di esporre i contenuti della fede in un linguaggio e con categorie di pensiero comprensibili ai contemporanei.
Giustino era nato intorno all’anno 100 presso l’antica Sichem, in Samaria, in Terra Santa; egli cercò a lungo la verità, pellegrinando nelle varie scuole della tradizione filosofica greca. Finalmente – come egli stesso racconta nei primi capitoli del suo Dialogo con Trifone – un misterioso personaggio, un vegliardo incontrato lungo la spiaggia del mare, lo mise dapprima in crisi, dimostrandogli l’incapacità dell’uomo a soddisfare con le sole sue forze l’aspirazione al divino. Poi gli indicò negli antichi profeti le persone a cui rivolgersi per trovare la strada di Dio e la «vera filosofia». Nel congedarlo, l’anziano lo esortò alla preghiera, perché gli venissero aperte le porte della luce. Il racconto adombra l’episodio cruciale della vita di Giustino: al termine di un lungo itinerario filosofico di ricerca della verità, egli approdò alla fede cristiana. Fondò una scuola a Roma, dove gratuitamente iniziava gli allievi alla nuova religione, considerata come la vera filosofia. In essa, infatti, aveva trovato la verità e quindi l’arte di vivere in modo retto. Fu denunciato per questo motivo e venne decapitato intorno al 165, sotto il regno di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo a cui Giustino stesso aveva indirizzato una sua Apologia.
Sono queste – le due Apologie e il Dialogo con Trifone – le sole opere che di lui ci rimangono. In esse Giustino intende illustrare anzitutto il progetto divino della creazione e della salvezza che si compie in Gesù Cristo, il Logos, cioè il Verbo eterno, la Ragione eterna, la Ragione creatrice. Ogni uomo, in quanto creatura razionale, è partecipe del Logos, ne porta in sé un «seme», e può cogliere i barlumi della verità. Così lo stesso Logos, che si è rivelato come in figura profetica agli Ebrei nella Legge antica, si è manifestato parzialmente, come in «semi di verità», anche nella filosofia greca. Ora, conclude Giustino, poiché il cristianesimo è la manifestazione storica e personale del Logos nella sua totalità, ne consegue che «tutto ciò che di bello è stato espresso da chiunque, appartiene a noi cristiani» (2 Apol. 13,4). In questo modo Giustino, pur contestando alla filosofia greca le sue contraddizioni, orienta decisamente al Logos qualunque verità filosofica, motivando dal punto di vista razionale la singolare «pretesa» di verità e di universalità della religione cristiana. Se l’Antico Testamento tende a Cristo come la figura orienta verso la realtà significata, la filosofia greca mira anch’essa a Cristo e al Vangelo, come la parte tende a unirsi al tutto. E dice che queste due realtà, l’Antico Testamento e la filosofia greca, sono come le due strade che guidano a Cristo, al Logos. Ecco perché la filosofia greca non può opporsi alla verità evangelica, e i cristiani possono attingervi con fiducia, come a un bene proprio. Perciò il mio venerato Predecessore, Papa Giovanni Paolo II, definì Giustino «pioniere di un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto discernimento»: perché Giustino, «pur conservando anche dopo la conversione grande stima per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver trovato nel cristianesimo “l’unica sicura e proficua filosofia” (Dial. 8,1)» (Fides et ratio, 38).
Nel complesso la figura e l’opera di Giustino segnano la decisa opzione della Chiesa antica per la filosofia, per la ragione, piuttosto che per la religione dei pagani. Con la religione pagana, infatti, i primi cristiani rifiutarono strenuamente ogni compromesso. La ritenevano idolatria, a costo di essere tacciati per questo di «empietà» e di «ateismo». In particolare Giustino, specialmente nella sua prima Apologia, condusse una critica implacabile nei confronti della religione pagana e dei suoi miti, considerati da lui come diabolici «depistaggi» nel cammino della verità. La filosofia rappresentò invece l’area privilegiata dell’incontro tra paganesimo, giudaismo e cristianesimo proprio sul piano della critica alla religione pagana e ai suoi falsi miti. «La nostra filosofia...»: così, nel modo più esplicito, giunse a definire la nuova religione un altro apologista contemporaneo di Giustino, il Vescovo Melitone di Sardi (citato in Eusebio, Storia Eccl. 4,26,7).
Di fatto la religione pagana non batteva le vie del Logos, ma si ostinava su quelle del mito, anche se questo era riconosciuto dalla filosofia greca come privo di consistenza nella verità. Perciò il tramonto della religione pagana era inevitabile: esso fluiva come logica conseguenza del distacco della religione – ridotta a un artificioso insieme di cerimonie, convenzioni e consuetudini – dalla verità dell’essere. Giustino, e con lui gli altri apologisti, siglarono la presa di posizione netta della fede cristiana per il Dio dei filosofi contro i falsi dèi della religione pagana. Era la scelta per la verità dell’essere contro il mito della consuetudine. Qualche decennio dopo Giustino, Tertulliano definì la medesima opzione dei cristiani con una sentenza lapidaria e sempre valida: «Dominus noster Christus veritatem se, non consuetudinem, cognominavit – Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine» (La velazione delle vergini 1,1). Si noti in proposito che il termine consuetudo, qui impiegato da Tertulliano in riferimento alla religione pagana, può essere tradotto nelle lingue moderne con le espressioni «moda culturale», «moda del tempo».
In un’età come la nostra, segnata dal relativismo nel dibattito sui valori e sulla religione – come pure nel dialogo interreligioso –, è questa una lezione da non dimenticare. A tale scopo vi ripropongo – e così concludo – le ultime parole del misterioso vegliardo, incontrato dal filosofo Giustino sulla riva del mare: «Tu prega anzitutto che le porte della luce ti siano aperte, perché nessuno può vedere e comprendere, se Dio e il suo Cristo non gli concedono di capire» (Dial. 7,3).