Il Papa all'udienza generale: Dio non è lontano, è amore concreto e si prende cura di noi
Benedetto XVI, all’udienza generale di stamani nell’Aula Paolo VI in Vaticano, ha svolto la sua catechesi rispondendo ad una domanda: “come parlare di Dio nel nostro tempo? Come comunicare il Vangelo, per aprire strade alla sua verità salvifica nei cuori spesso chiusi dei nostri contemporanei e nelle loro menti talvolta distratte dai tanti bagliori della società? Gesù stesso, ci dicono gli Evangelisti, nell’annunciare il Regno di Dio si è interrogato su questo: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?» (Mc 4,30)". La prima rispota - ha detto - è che "noi possiamo parlare di Dio perché Dio ha parlato con noi". "Dio non è un'ipotesi lontana sull'origine del mondo, non è un'intelligenza matematica molto lontana da noi, Dio s'interessa a noi, Dio ci ama... Dio si è autocomunicato fino a incarnarsi". "In Gesù di Nazaret noi incontriamo il volto di Dio, che è sceso dal suo Cielo per immergersi nel mondo degli uomini ed insegnare l’«arte di vivere», la strada della felicità; per liberarci dal peccato e renderci figli di Dio (cfr Ef 1,5; Rm 8,14). Gesù è venuto per salvarci e mostrarci la vita buona del Vangelo”.
“Parlare di Dio – ha osservato - vuol quindi dire anzitutto avere ben chiaro ciò che dobbiamo portare agli uomini e alle donne del nostro tempo:non un Dio astratto, un'ipotesi, ma un Dio concreto" e che "è entrato nella storia" e chè è "il Dio di Gesù Cristo come risposta alla domanda fondamentale del perché e del come vivere. Per questo, parlare di Dio richiede una una familiarità con Gesù e il suo Vangelo, suppone una profonda conoscenza di Dio e una forte passione per il suo progetto di salvezza, senza cedere alla tentazione del successo, ma seguendo il metodo di Dio stesso: il metodo di Dio è quello dell'umiltà, Dio si fa uno di noi, è il metodo realizzato nell’Incarnazione nella semplice casa di Nazaret e nella grotta di Betlemme, quello della parabola del granellino di senape. Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente fa crescere la pasta (cfr Mt 13,33). Nel parlare di Dio, nell’opera di evangelizzazione, sotto la guida dello Spirito Santo, è necessario un recupero di semplicità, un ritornare all’essenziale dell’annuncio: la Buona Notizia di un Dio che è reale, concreto e che s'interessa a noi, che è un Dio-Amore che si fa vicino a noi in Gesù Cristo fino alla Croce e che nella Risurrezione ci dona la speranza e ci apre ad una vita che non ha fine, la vita eterna, la vita vera. Quell’eccezionale comunicatore che fu l’apostolo Paolo ci offre una lezione che va proprio al centro della fede". Paolo - sottolinea il Papa - non parla di una sua filosofia, non inventa sue idee, ma "parla del Dio che è entrato nella sua vita", del Cristo crocifisso e risorto. Non vuole creare un gruppo di ammiratori ma annuncia Cristo e vuole guadagnare persone per Lui non per se stesso. Parlare di Dio vuol dire quindi "espropriare il proprio io offrendolo a Cristo, nella consapevolezza che non siamo noi a poter guadagnare gli altri a Dio, ma dobbiamo attenderli da Dio stesso, invocarli da Lui. Il parlare di Dio nasce quindi sempre dall’ascolto”.
Ha poi spiegato che “comunicare la fede, per san Paolo, non significa quindi portare se stesso, ma dire apertamente e pubblicamente quello che ha visto e sentito nell’incontro con Cristo, quanto ha sperimentato nella sua esistenza ormai trasformata da quell’incontro: è portare quel Gesù che sente presente in sé ed è diventato il vero orientamento della sua vita, per far capire a tutti che Egli è necessario per il mondo ed è decisivo per la libertà di ogni uomo. L’Apostolo non si accontenta di proclamare delle parole, ma coinvolge tutta la propria esistenza nella grande opera della fede. Per parlare di Dio, bisogna fargli spazio, nella fiducia che è Lui che agisce nella nostra debolezza: fargli spazio senza paura, con semplicità e gioia, nella convinzione profonda che quanto più mettiamo al centro Lui e non noi, tanto più la nostra comunicazione sarà fruttuosa. E questo vale anche per le comunità cristiane: esse sono chiamate a mostrare l’azione trasformante della grazia di Dio, superando individualismi, chiusure, egoismi, indifferenza e vivendo nei rapporti quotidiani l’amore di Dio". Le nostre comunità - sottolinea - devono essere così, i cristiani devono essere annunciatori di Cristo non di se stessi.
“A questo punto – ha proseguito - dobbiamo domandarci come comunicava Gesù stesso. Gesù, nella sua unicità, parla del Padre suo - Abbà - e del Regno di Dio, con lo sguardo pieno di compassione per i disagi e le difficoltà dell’esistenza umana". Parla con grande realismo e ci mostra che nel mondo "traspare il volto di Dio". "Dai Vangeli noi vediamo come Gesù si interessa di ogni situazione umana che incontra, si immerge nella realtà degli uomini e delle donne del suo tempo, con una fiducia piena nell’aiuto del Padre. I discepoli, che vivono con Gesù, le folle che lo incontrano, vedono la sua reazione ai problemi più disparati, vedono come parla, come si comporta; vedono in Lui l’azione dello Spirito Santo, l’azione di Dio. In Lui annuncio e vita si intrecciano: Gesù agisce e insegna, partendo sempre da un intimo rapporto con Dio Padre. Questo stile diventa un’indicazione essenziale per noi cristiani: il nostro modo di vivere nella fede e nella carità diventa un parlare di Dio nell’oggi, perché mostra con un’esistenza vissuta in Cristo la credibilità ... di quello che diciamo con le parole". "E in questo dobbiamo essere attenti a cogliere i segni dei tempi nella nostra epoca, ad individuare le potenzialità, i desideri, gli ostacoli che si incontrano nella cultura attuale, in particolare il desiderio di autenticità, l’anelito alla trascendenza, la sensibilità per la salvaguardia del creato, e comunicare senza timore la risposta che offre la fede in Dio. L’Anno della fede è occasione per scoprire, con la fantasia animata dallo Spirito Santo, nuovi percorsi a livello personale e comunitario, affinché in ogni luogo la forza del Vangelo sia sapienza di vita e orientamento dell’esistenza”.
Il Papa ha poi continuato: “Anche nel nostro tempo, un luogo privilegiato per parlare di Dio è la famiglia, la prima scuola per comunicare la fede alle nuove generazioni. Il Concilio Vaticano II parla dei genitori come dei primi messaggeri di Dio (cfr Cost. dogm. Lumen gentium, 11; Decr. Apostolicam actuositatem, 11), chiamati a riscoprire questa loro missione, assumendosi la responsabilità nell’educare, nell’aprire le coscienze dei piccoli all’amore di Dio come un servizio fondamentale alla loro vita, nell’essere i primi catechisti e maestri della fede per i loro figli. E in questo compito è importante anzitutto la vigilanza, che significa saper cogliere le occasioni favorevoli per introdurre in famiglia il discorso di fede e per far maturare una riflessione critica rispetto ai numerosi condizionamenti a cui sono sottoposti i figli. Questa attenzione dei genitori è anche sensibilità nel recepire le possibili domande religiose presenti nell’animo dei figli, a volte evidenti, a volte nascoste. Poi, la gioia: la comunicazione della fede deve sempre avere la tonalità della gioia. E’ la gioia pasquale, che non tace o nasconde le realtà del dolore, della sofferenza, della fatica, della difficoltà, dell’incomprensione e della stessa morte, ma sa offrire i criteri per interpretare tutto nella prospettiva della speranza cristiana. La vita buona del Vangelo è proprio questo sguardo nuovo, questa capacità di vedere con gli occhi stessi di Dio ogni situazione. È importante aiutare tutti i membri della famiglia a comprendere che la fede non è un peso, ma una fonte di gioia profonda, è percepire l’azione di Dio, riconoscere la presenza del bene, che non fa rumore; ed offre orientamenti preziosi per vivere bene la propria esistenza. Infine, la capacità di ascolto e di dialogo: la famiglia deve essere un ambiente in cui si impara a stare insieme, a ricomporre i contrasti nel dialogo reciproco, che è fatto di ascolto e di parola, a comprendersi e ad amarsi, per essere un segno, l’uno per l’altro, dell’amore misericordioso di Dio”.
Questa la conclusione di Benedetto XVI: “Parlare di Dio, quindi, vuol dire far comprendere con la parola e con la vita che Dio non è il concorrente della nostra esistenza, ma piuttosto ne è il vero garante, il garante della grandezza della persona umana. Così ritorniamo all’inizio: parlare di Dio è comunicare, con forza e semplicità, con la parola e con la vita, ciò che è essenziale: il Dio di Gesù Cristo, quel Dio che ci ha mostrato un amore così grande da incarnarsi, morire e risorgere per noi; quel Dio che chiede di seguirlo e lasciarsi trasformare dal suo immenso amore per rinnovare la nostra vita e le nostre relazioni; quel Dio che ci ha donato la Chiesa, per camminare insieme e, attraverso la Parola e i Sacramenti, rinnovare l’intera Città degli uomini, affinché possa diventare Città di Dio”.
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