Il Signore mi chiama a "salire sul monte", a dedicarmi ancora di più alla preghiera... (Benedetto XVI, 24 febbraio 2013)
sabato 30 marzo 2013
Il Sabato santo nella tradizione bizantina (Nin)
Il Sabato santo nella tradizione bizantina
Vita, non ti attardare tra i morti
di Manuel Nin
L'ufficiatura del Sabato santo nella tradizione bizantina, oltre ai salmi, ai tropari e alle odi, comprende due parti che diventano in qualche modo il centro di questa ufficiatura: il canto degli enkòmia, la venerazione della tomba di Cristo, e la processione dell'epitàfios, l'icona su telo con l'immagine del Cristo morto calato dalla croce. Gli enkòmia sono l'elogio funebre di Gesù formato da 176 strofe divise in tre parti. È un testo poetico composto tra il XII e il XIV secolo e del quale non si conosce l'autore, benché i temi principali risalgano a san Gregorio di Nazianzo e a Romano il Melodo. Durante il canto del vespro l'epitàfios viene solennemente portato dal santuario al tàfos, la tomba che raffigura il santo sepolcro e che viene adornata abbondantemente con fiori e profumi; alla fine del mattutino, dopo la processione, l'epitàfios verrà di nuovo portato sull'altare dove rimarrà fino alla vigilia dell'Ascensione.
Il canto degli enkòmia viene fatto di fronte al tàfos. Le strofe sono cantate da due cori e intrecciate con il salmo 118; il poema sgrana lentamente, mettendo in scena diversi personaggi, tutti i misteri che sono avvenuti, specialmente la sepoltura di Gesù e la sua discesa nell'ade, in un costante alternarsi di dolcezza e di amarezza, di lacrime e di attesa gioiosa della risurrezione. Il testo si sofferma sulla storia della salvezza celebrata dal Venerdì santo alla domenica di Pasqua, dalla croce alla risurrezione.
Diverse strofe, quasi con stupore, cantano il contrasto tra vita e morte, perché colui che è e dà la vita è anche colui che giace morto: "O Cristo, tu che sei la vita sei stato deposto in una tomba: le schiere angeliche piene di stupore davano gloria alla tua condiscendenza. O vita, come muori? Come dimori in una tomba, mentre distruggi il regno della morte e risusciti dall'ade i defunti? Colui che è splendente di bellezza al di sopra di tutti i mortali, appare come un morto sfigurato, lui che fa bella la natura dell'universo. O vita, quale prodigio, tu sei nella morte! E come la morte è distrutta dalla morte? E come da un morto scaturisce la vita?".
Il canto propone l'immagine quasi opposta di Cristo creatore e di Cristo chiuso in una tomba, l'infinità del cielo e la limitatezza di una tomba: "Tu che hai fissato le misure della terra, o Gesù, re dell'universo, abiti oggi in una piccola tomba, per far risorgere i morti dai sepolcri. Anche la moltitudine delle schiere intelligibili accorre con Giuseppe e Nicodemo, per rinchiudere in un piccolo sepolcro te, che nulla può contenere. Tu che nel principio, col solo tuo cenno hai fissato l'orbita terrestre, come uomo mortale scendi sotto terra esanime: fremi, o cielo, a questa vista! Tremò il sole vedendo te, luce invisibile, nascosto in un sepolcro, senza respiro, o Cristo mio, e oscurò la sua luce. È stato innalzato sulla croce colui che ha sospeso la terra sulle acque, ed ora, esanime, è sepolto sotto la terra, che non lo può sostenere e terribilmente si scuote".
La discesa nell'ade è in vista della ricerca e della redenzione di Adamo: "Sulla terra sei disceso per salvare Adamo, e non avendolo trovato sulla terra, o sovrano, sino all'ade sei disceso per cercarlo. Come morto, nella tomba, come Dio, col Padre, e nell'ade come sovrano del creato tu liberi i prigionieri dalla corruzione. Disceso sotto terra come un morto, per tuo volere, riconduci dalla terra alle realtà celesti quanti ne erano decaduti, o Gesù". Quindi la discesa di Cristo negli inferi per cercare e riportare Adamo nel paradiso permette di presentare il Signore: "Apparso nella carne come nuovo Adamo, o salvatore, con la tua morte riporti alla vita Adamo, un tempo per invidia messo a morte. Tu che un tempo, prendendo una costola da Adamo, ne plasmasti Eva, sei stato trafitto al fianco e ne hai fatto sgorgare torrenti di purificazione".
Un ruolo particolare è svolto nel poema dalla Madre di Dio; il suo lamento nel dolore si mescola al suo canto pieno di speranza. La voce di Maria diventa anche voce della Chiesa che piange la morte del figlio e allo stesso tempo professa la sua fede in colui che è la vita: "Su di te, o Gesù, la pura effondeva gemiti e lacrime di madre, ed esclamava: Come potrò seppellirti, o figlio? Ahimè, luce del mondo, ahimè, mia luce, Gesù mio amatissimo! gridava la Vergine con gemito penoso. O Dio e Verbo, o gioia mia! Come sopporterò la tua sepoltura di tre giorni? Sono straziate le mie viscere materne! Chi mi darà pioggia e fonti di lacrime per piangere il mio dolce Gesù? gridava la Vergine sposa di Dio. Ohimè, la spada crudele della tua uccisione, trapassa il mio cuore, o figlio che non hai principio, nuovissimo mistero! Quando ti vedrò, o salvatore, luce intemporale, gioia e diletto del mio cuore? esclamava la Vergine gemendo".
Il pianto di Maria viene fortemente sottolineato dal poema, un pianto però segnato dalla speranza nella risurrezione, come se Maria, la Chiesa stessa volessero spingere il Figlio a risorgere: "Piangeva amaramente la tua Madre immacolata, o Verbo, vedendo nella tomba te, eterno Dio ineffabile. Vedendo la tua morte, o Cristo mio, la tua purissima Madre gridava a te amaramente: Non ti attardare, o vita, tra i morti!". La passione del Figlio diventa quasi sofferenza del parto; diversi tropari durante la quaresima parlano per Maria del suo parto senza dolore, quasi a sottolineare che per lei le doglie avvengono ai piedi della croce del Figlio: "Sola tra le donne, senza doglie ti ho partorito, o figlio, ma ora per la tua passione soffro insostenibili doglie. Così la venerabile gridava".
Diverse volte nel testo le immagini, intrecciando la voce della Madre e quella del Figlio, arrivano a una tenerezza veramente toccante: "Vedendoti morto, colei che ti ha partorito, o Verbo, come madre faceva lamento. Gridava la Vergine, piangendo a calde lacrime, col cuore trafitto: O mia dolce primavera, dolcissimo figlio mio, dove è tramontata la tua bellezza? O luce degli occhi miei, dolcissimo figlio mio, come può ora coprirti una tomba? Per liberare Adamo ed Eva io soffro tutto questo: non piangere, Madre. Do gloria, figlio mio, alla tua somma compassione: per essa tu soffri tutto questo".
In questa celebrazione del Sabato santo, il popolo diventa il vero celebrante attorno all'epitàfios, incarnando veramente i diversi personaggi del poema, assumendo il dolore, il pianto, la gioia. Così il sepolcro del Signore diventa il centro della Chiesa e il centro dell'universo, come sottolinea un versetto: "Tutte le generazioni, o Cristo mio, offrono un canto alla tua sepoltura".
(©L'Osservatore Romano 31 marzo 2013)
dall'omelia di benedetto XVI nella veglia di Psqua del 2012: ":.......Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi.Ma come può avvenire questo? Come può tutto questo giungere fino a noi così che non rimanga solo parola, ma diventi una realtà in cui siamo coinvolti? Mediante il Sacramento del battesimo e la professione della fede, il Signore ha costruito un ponte verso di noi, attraverso il quale il nuovo giorno viene a noi. Nel Battesimo, il Signore dice a colui che lo riceve: Fiat lux – sia la luce. Il nuovo giorno, il giorno della vita indistruttibile viene anche a noi. Cristo ti prende per mano. D’ora in poi sarai sostenuto da Lui e entrerai così nella luce, nella vita vera. Per questo, la Chiesa antica ha chiamato il Battesimo “photismos” – illuminazione.
RispondiEliminaPerché? Il buio veramente minaccioso per l’uomo è il fatto che egli, in verità, è capace di vedere ed indagare le cose tangibili, materiali, ma non vede dove vada il mondo e da dove venga. Dove vada la stessa nostra vita. Che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Il buio su Dio e il buio sui valori sono la vera minaccia per la nostra esistenza e per il mondo in generale. Se Dio e i valori, la differenza tra il bene e il male restano nel buio, allora tutte le altre illuminazioni, che ci danno un potere così incredibile, non sono solo progressi, ma al contempo sono anche minacce che mettono in pericolo noi e il mondo. Oggi possiamo illuminare le nostre città in modo così abbagliante che le stelle del cielo non sono più visibili. Non è questa forse un’immagine della problematica del nostro essere illuminati? Nelle cose materiali sappiamo e possiamo incredibilmente tanto, ma ciò che va al di là di questo, Dio e il bene, non lo riusciamo più ad individuare. Per questo è la fede, che ci mostra la luce di Dio, la vera illuminazione, essa è un’irruzione della luce di Dio nel nostro mondo, un’apertura dei nostri occhi per la vera luce...."