Il Signore mi chiama a "salire sul monte", a dedicarmi ancora di più alla preghiera... (Benedetto XVI, 24 febbraio 2013)
giovedì 28 marzo 2013
Il triduo pasquale. Sorprese divine (Biffi)
Il triduo pasquale
Sorprese divine
di Inos Biffi
Giovedì, Venerdì e Sabato Santo. Sono i giorni delle sorprese divine: il pane e il vino, che divengono il corpo e il sangue di Cristo; il patibolo umiliante e obbrobrioso della croce, che si trasforma in trono regale; il sepolcro, residenza di morte, che si apre al Signore della vita.
Il sacro Triduo si apre nel ricordo della cena che Gesù, tra tutte, ha più desiderato. Ed è la prima sorpresa di Dio. In quel banchetto finale egli ha istituito il sacramento del dono di se stesso. Quanto avrebbe fatto sulla croce nel cenacolo lo anticipava nel segno del pane e del vino, distribuiti come suo corpo e suo sangue. Un convito inatteso: un ricevere personalmente Cristo nello stato della sua consumazione; un associarsi al suo destino di passione, per il consorzio con la sua risurrezione. Chi ignora Gesù crocifisso, non può comprendere, anzi fatalmente fraintende, l'Eucaristia.
D'altra parte, solo prendendo parte al sacrificio di Cristo, che è la sua carità, si può ricevere la forza per la lavanda dei piedi e per la scelta dell'ultimo posto. E l'ultimo posto è la croce. L'Eucaristia ne è il sacramento, destinato alla creazione di una umanità, dove a dominare non sia il potere ma l'amore.
E nell'Eucaristia il corpo di Cristo è consegnato agli apostoli, perché lo ricevano e a loro volta lo distribuiscano. Nel cenacolo nasce il sacerdozio cristiano: come servizio a Gesù Cristo perché ci sia la Chiesa. L'identità sacerdotale è intimamente iscritta nel mistero della morte e della risurrezione del Signore, a cui il sacerdote si dedica, perché all'umanità non manchi mai l'Eucaristia, senza la quale non c'è Chiesa. Egli è chiamato a «far di Dio cibo alle anime» (Clemente Rebora).
La seconda sorpresa è la croce, segno di impotenza e di stoltezza. Lo contempliamo compassionevoli e sconcertati quando a morirvi nello strazio e nella derelizione è Gesù, Figlio di Dio. Ma, come se non fosse Dio, egli non scende, e rimane nella condizione dell'assoluta impotenza e nello stato del disonore, che la logica dell'uomo non può che definire come assenza di Dio e puro limite della creatura oppressa dalla violenza.
Soltanto la fede riesce a interpretare il Crocifisso, ma rimane senza fiato. Chi non è credente vede in Gesù che vi muore uno dei tanti casi che meritano pietà: un simbolo di tutte le sofferenze che irragionevolmente ma inevitabilmente l'uomo è costretto a sopportare. Chi ha il dono della fede trova nel Crocifisso il segno più concreto e reale di Dio. Gesù che patisce e muore è Dio che, per puro amore, si è fatto così prossimo all'uomo da condividere la sua sorte di peccatore.
Senza dubbio, la divinità non patisce; ma è pur vero che sulla Croce a patire realmente è Colui che è Figlio di Dio, che non ha trattenuto con avidità la sua «forma divina», aggrappandosi a essa come a «tesoro geloso», ma se ne è spogliato, «assumendo la condizione servile», scegliendo la «forma umana», con un abbassamento e una umiliazione portata all'estremo della «morte di croce». Se a fare tutto questo è il Figlio di Dio, la passione tocca l'intimo della Trinità. Sulla croce conosciamo il vero Dio. Sul Calvario si svolge il dramma della Trinità e dell'uomo, di ogni uomo, che sia mai apparso o che apparirà sulla terra.
Nella morte di Gesù avviene la piena rivelazione della carità di Dio, che ama l'uomo al prezzo del Figlio: poiché a redimere non è il dolore, che per se stesso conduce solo a disperazione, ma l'amore divino consumato fino al dono di sé. Questo amore, deciso dall'eternità, è la sostanza della creazione: abbraccia ogni uomo da sempre, anche se avvenne in un punto preciso del tempo. Quando viene sulla terra un uomo, prima ancora che egli lo sappia, si ritrova per sé «l'universal carità della Croce», come scrive Clemente Rebora, che al Crocifisso ha rivolto gli accenti di una poesia che era immensa sofferenza e pura preghiera: «Ho trovato Chi prima mi ha amato e mi ama e mi lava nel sangue che è fuoco». «Oh senza Te, Gesù, le nostre pene son già principio in terra dell'inferno».
Ed ecco, il Sabato santo, il giorno di una calma quasi irreale e piena di presentimento. Anche di Gesù -- come di ogni altro uomo -- una volta spirato, resta il corpo inanimato, oggetto della pietà e della cura dei profumi e degli aromi. Il Figlio di Dio è morto veramente: ha consumato la sua comunione con gli uomini raggiungendo la condizione del cadavere, l'ultimo residuo visibile dell'uomo, da cui parte fatalmente il dissolvimento e il ritorno alla polvere. Ora Gesù si trova nello stato dell'inerzia, avvolta dallo stesso silenzio che regna «all'ombra dei cipressi». Il Sabato santo siamo chiamati a sentire questo silenzio che il Figlio di Dio condivide a motivo della morte; a considerare, una volta ancora, fino a che punto egli si sia reso simile a noi.
Gesù «non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide la corruzione»; fu sciolto «dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere», ma non ne fu preservato. Per questo oggi, sostando al sepolcro di Gesù, alimentiamo la nostra speranza che Dio non ci abbandonerà negli inferi, a motivo di Lui, che li ha conosciuti e ne fu liberato.
Il sentimento della quiete si unisce a quello dello stupore, perché non c'è situazione che non sia toccata e trasformata dalla morte di Cristo, che è principio di risurrezione e di vita. Nella Veglia ad apparire ai credenti sarà il Risorto dagli inferi, che lascerà vuoto il sepolcro vanamente sigillato da Giuseppe. Ma non sarà stata inutile la nostra sosta, se ad occuparla saranno stati i pensieri sul Figlio di Dio che, conoscendo il sepolcro, lo dischiude e pone fine al pianto inconsolabile e all'opprimente paura della tomba.
(©L'Osservatore Romano 28 marzo 2013)
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