domenica 16 giugno 2013

Benedetto XVI: Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo passa poi a nominare umilmente se stesso come “l'infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto

L’UDIENZA GENERALE, 10.09.2008 
CATECHESI DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI IN LINGUA ITALIANA

IV: La concezione paolina dell’apostolato

Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso ho parlato della grande svolta che si ebbe nella vita di san Paolo a seguito dell’incontro con il Cristo risorto.

Gesù entrò nella sua vita e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo. E’ proprio di questa sua nuova condizione di vita, cioè dell’essere egli apostolo di Cristo, che vorrei parlare oggi. 

Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che erano stati apostoli prima” di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della Chiesa.

Eppure, come tutti sanno, anche san Paolo interpreta se stesso come Apostolo in senso stretto. Certo è che, al tempo delle origini cristiane, nessuno percorse tanti chilometri quanti lui, per terra e per mare, con il solo scopo di annunciare il Vangelo.

Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). 

Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7).

In quello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso come “l'infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,9-10). 

La metafora dell'aborto esprime un'estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia: “Sono l'ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2).

Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Da persecutore a fondatore di Chiese: questo ha fatto Dio in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto!

Cos'è, dunque, secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli? 

Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo.

La prima è di avere “visto il Signore” (cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita.

Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce nell'apostolato, non la propria presunzione.

L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Non per nulla Paolo dice di essere “apostolo per vocazione” (Rm 1,1), cioè “non da parte di uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1). Questa è la prima caratteristica: aver visto il Signore, essere stato chiamato da Lui. 

La seconda caratteristica è di “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco apóstolos significa appunto “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e rappresentante di un mandante. 

È per questo che Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1). 

Ancora una volta emerge in primo piano l'idea di una iniziativa altrui, quella di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni interesse personale.

Il terzo requisito è l’esercizio dell’“annuncio del Vangelo”, con la conseguente fondazione di Chiese. 

Quello di “apostolo”, infatti, non è e non può essere un titolo onorifico. Esso impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l'esistenza del soggetto interessato. 

Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore?” (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi afferma: “La nostra lettera siete voi..., una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (3,2-3).

Non ci si stupisce, dunque, se il Crisostomo parla di Paolo come di “un’anima di diamante” (Panegirici, 1,8), e continua dicendo: “Allo stesso modo che il fuoco appiccandosi a materiali diversi si rafforza ancor di più..., così la parola di Paolo guadagnava alla propria causa tutti coloro con cui entrava in relazione, e coloro che gli facevano guerra, catturati dai suoi discorsi, diventavano un alimento per questo fuoco spirituale” (ibid., 7,11).

Questo spiega perché Paolo definisca gli apostoli come “collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9; 2 Cor 6,1), la cui grazia agisce con loro. Un elemento tipico del vero apostolo, messo bene in luce da san Paolo, è una sorta di identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. 

Nessuno come Paolo, infatti, ha evidenziato come l'annuncio della croce di Cristo appaia “scandalo e stoltezza” (1 Cor 1,23), a cui molti reagiscono con l'incomprensione ed il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi.

A questa sorte, di apparire “scandalo e stoltezza”, partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: è questa l’esperienza della sua vita. Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di ironia: “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all'ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi” (1 Cor 4,9-13).

E’ un autoritratto della vita apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo. 

Paolo, peraltro, condivide con la filosofia stoica del suo tempo l'idea di una tenace costanza in tutte le difficoltà che gli si presentano; ma egli supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell'amore di Dio e di Cristo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39).

Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana.

Come si vede, san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza; potremmo dire ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva il suo ministero con fedeltà e con gioia, “per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). E nei confronti delle Chiese, pur sapendo di avere con esse un rapporto di paternità (cfr 1 Cor 4,15), se non addirittura di maternità (cfr Gal 4,19), si poneva in atteggiamento di completo servizio, dichiarando ammirevolmente: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24).

Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia. 

© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana

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