venerdì 11 gennaio 2013

Quel silenzio in Piazza San Pietro. L’incontro europeo di Taizé a Roma (Fratel Alois)


L’incontro europeo di Taizé a Roma

Quel silenzio in piazza San Pietro

fratel Alois

Tra le immagini del nostro incontro europeo dei giovani a Roma vorrei evidenziarne due. 
Sabato sera, 29 dicembre, durante la preghiera a piazza San Pietro attorno a Papa Benedetto XVI, il silenzio di quarantacinquemila giovani, osservato per lunghi minuti, è stato un segno indimenticabile della profondità spirituale della loro ricerca. 
Quella sera, cattolici, ortodossi e protestanti hanno vissuto una sorta di anticipazione dell’unità tanto desiderata.
L’altra immagine è stata visibile ogni giorno  verso le 12 al Circo Massimo. Migliaia di giovani che parlavano le lingue dell’Europa e provenivano dai Paesi più diversi, si mettevano in fila per ricevere il loro pasto, si sedevano sull’erba, mangiavano in allegria: sembrava di vedere un’illustrazione dei racconti evangelici della moltiplicazione dei pani, e tutto ciò nel cuore della città.
Siamo venuti a Roma come pellegrini. Per alcuni questo cammino era cominciato a novembre a Kigali, in Rwanda. Molti giovani dell’Africa orientale, e anche da più lontano, si erano lì riuniti per esprimere il loro desiderio di pace in questo Paese che ha così tanto sofferto.
Del Rwanda  conserviamo soprattutto l’appello alla riconciliazione. La Chiesa vuole contribuire a una riconciliazione profonda, non a una coesistenza imposta, ma a una riconciliazione dei cuori. È un appello a tutti: come riconciliare ciò che sembra, e che forse è, incompatibile? Noi non siamo condannati alla rassegnazione o alla passività, poiché Cristo è venuto a riconciliare ciò che sembrava per sempre opposto.
Alla fine del pellegrinaggio a Roma, tanti giovani hanno espresso la loro riconoscenza a tutti coloro che hanno  permesso che questo incontro europeo fosse pieno di gioia e di speranza: Benedetto xvi, le cui parole ci accompagneranno per lungo tempo, il cardinale Vallini e i suoi collaboratori del Vicariato, le parrocchie con i loro sacerdoti, le famiglie, le numerose comunità religiose, le parrocchie ortodosse e protestanti, i responsabili politici della città e del Paese e tutti i servizi che hanno sostenuto l’incontro con il loro lavoro.
Il fatto che migliaia di persone abbiano aperto le loro porte a giovani che non conoscevano sottolinea la comunione della Chiesa e approfondisce la comprensione tra i popoli. L’ospitalità è un gesto che permette a tutti di diventare portatori di pace nella società.
Persino i giovani che hanno dormito negli alloggi collettivi hanno provato gioia nello stare insieme, nell’aiutarsi reciprocamente con semplicità. Come tutti gli altri, anche quelli che erano ospitati alla Fiera di Roma ogni mattina hanno pregato insieme, e sempre insieme hanno festeggiato il passaggio al nuovo anno.
A Roma i giovani hanno scoperto segni della continuità della fede dagli apostoli fino a oggi, in particolare riunendosi a mezzogiorno e la sera per la preghiera comune celebrata in simultanea in sette basiliche e grandi chiese del centro storico, o andando a pregare nelle catacombe. E così i giovani, provenienti da popoli diversi, hanno approfondito la loro solidarietà, in un momento della storia in cui difficoltà materiali spingono piuttosto verso ripiegamenti identitari.
Come pellegrini, siamo tutti in cammino verso una comunione più personale con Dio e verso una comunione più profonda gli uni con gli altri. Era fondamentale che ognuno vivesse quei giorni come un pellegrinaggio interiore, liberando in se stesso le fonti della fiducia in Dio. Ed è il percorso che seguiremo anche a Taizé per tutto l’anno che è appena iniziato.
Oggi è essenziale  rispondere in modo nuovo alla domanda: perché credere in Dio? In un mondo in cui la fiducia in Dio è sempre meno ovvia, una risposta personale a questa domanda può dare un orientamento all’esistenza.
Dopo Roma, con un centinaio di giovani di venticinque Paesi, abbiamo continuato il pellegrinaggio andando a celebrare l’Epifania a Istanbul. Lì, siamo passati di sorpresa in sorpresa: nelle diverse comunità abbiamo trovato un’accoglienza calorosa, a cominciare da quella del patriarca Bartolomeo. I giovani hanno approfondito la propria conoscenza delle diverse tradizioni cristiane. E i cristiani a Istanbul  offrono un bel esempio di come vivere in una società dove il cristianesimo è largamente minoritario, e portano insieme un chiaro segno del Vangelo: la luce dell’Epifania, che illumina il mondo e l’intero creato, s’irradia dall’umile grotta di Betlemme.
Da Kigali a Roma, da Roma a Istanbul, siamo così diventati ancora più consapevoli del fatto che, nel pellegrinaggio della nostra vita, abbiamo bisogno gli uni degli altri. Nessuno può credere da solo. Questo è vero a livello personale, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, nelle nostre parrocchie:  abbiamo bisogno degli altri perché ognuno di noi è in un certo senso un povero.
Abbiamo anche bisogno gli uni degli altri tra Paesi e persino tra continenti. Una delle cause delle ingiustizie e delle violenze è la non conoscenza dell’altro. Noi cristiani possiamo contribuire alla pace nel mondo, creando ponti attraverso legami personali di amicizia.
E abbiamo bisogno gli uni degli altri tra le diverse Chiese. Solo insieme possiamo essere sale della terra; in caso contrario, il messaggio del Vangelo rischia di perdere il suo sapore. In quanto battezzati, apparteniamo tutti a Cristo, facciamo parte del corpo di Cristo. Che la nostra identità di battezzati venga al primo posto, che trascenda la nostra identità confessionale! I cristiani riconciliati possono diventare testimoni di pace e di comunione, portatori di una nuova solidarietà tra gli esseri umani.

(©L'Osservatore Romano 12 gennaio 2013)

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