Il Signore mi chiama a "salire sul monte", a dedicarmi ancora di più alla preghiera... (Benedetto XVI, 24 febbraio 2013)
lunedì 18 febbraio 2013
Il Papa se n’è andato per rivolta. È una rivolta, un moto dello spirito e del corpo, della ragione e del cuore (Barbano)
Le domande sul Papa che se ne va
di Alessandro Barbano
Sulle scale mobili della metropolitana Toledo di Napoli, sotto il cono di piastrelle blu marino dell’architetto catalano Oscar Tousquets che per un effetto ottico sembra proiettare la luce dalle viscere della terra fino all’oblò posto 40 metri più in alto, può capitare di ascoltare un bambino che rivolge al padre le quattro domande che seguono: perché il Papa se n’è andato? Dio si può dimettere? Se il più forte di noi si arrende, noi che già siamo deboli come ci dobbiamo sentire? Perché ci lascia nelle mani di quelli che hanno deturpato la Chiesa?
Per rispondere bisogna salire in superficie, di fronte al mosaico di marmo e pasta vitrea di William Kentridge che narra la storia della città. Perché ogni giudizio su ciò che un uomo fa si dà nella storia. E perché ogni pretesa teologica è estranea a questo ragionamento.
Il Papa se n’è andato per rivolta. Che non è rinuncia, la quale esprime una resa e invece sei giorni dopo l’annuncio è chiaro a tutti che il suo gesto sa di coraggio. E non è una rivoluzione, che sottende una brama di potere e invece lui si spoglia di ogni possibilità di condizionare i suoi simili. È una rivolta, un moto dello spirito e del corpo, della ragione e del cuore, porta con sé la volontà dell’azione e non anche di tutte le sue conseguenze, perché è libera nei fini. Il Papa non può determinare ciò che accadrà e rischia di non saperlo nemmeno dalla clausura che ha scelto per sé.
Ma se è una rivolta, contro chi si dirige? Contro l’uomo che desidera tutto ciò che è possibile, e poiché le possibilità crescono sempre di più il suo desiderio di avere e di fare è sproporzionato rispetto al suo desiderio di essere. Ma anche contro la Chiesa, che è fatta di uomini ed è anch’essa divorata dai desideri. Anzi, come dice il Papa ne è deturpata, poiché lo spettacolo che offre prima ancora che ingiusto è brutto, al confronto con la bellezza del creato.
Quando era ancora cardinale, papa Ratzinger disse che la Chiesa era sporca. Pronunciò queste parole mentre Karol Wojtyla si avvicinava alla morte. Le ha ripetute nei giorni scorsi perché è convinto che poco sia cambiato.
Il Papa è vecchio e sente le energie mancargli, ma soprattutto è solo e infelice perché si accorge che nessuno di coloro che gli stanno attorno vede la bruttezza del mondo.
E allora che fa? Lasciando il suo incarico come un qualunque capo di Stato o di governo egli porta la Chiesa nel tempo della storia umana e sfida il mondo con i mezzi di quest’ultimo: mentre gli uomini corrono verso il potere lui li costringe a fermarsi e a indietreggiare spogliandosi del suo e mostrando loro il fardello di solitudine e di infelicità che esso porta con sé.
Nessuno se lo aspettava, perché tutti pensavano che il Papa non avrebbe mai fatto uso del tempo, vincolato com’era all’eternità divina. Tranne quei pochi che avevano letto un suo bellissimo libro scritto quasi cinquanta anni fa e intitolato “Introduzione al Cristianesimo”. In cui Ratzinger spiega che l’eternità non è un tempo che si prolunga all’infinito ma un significato che attraversa il tempo e lo sopravanza, come lo è la Pasqua di Cristo rispetto alla resurrezione dei corpi. Se un istante di verità può viaggiare fino alla fine del tempo, si può star certi che il significato del suo gesto è destinato a vivere nel futuro.
Ma Dio si può dimettere? Certo che no, ma il Papa non è Dio. È un uomo che ne interpreta la volontà. La volontà del Dio cristiano coincide con la libertà dell’uomo, quindi anche con la libertà del Papa. Altrimenti non sarebbe spiegabile né mai sostenibile il male che spesso entra nella storia, come per esempio le guerre di potere e la corruttela che corrodono la Chiesa.
Le dimissioni libere del Papa hanno una sola conseguenza certa: tornano a rivolgere l’uomo verso Dio. Mai come in questi giorni egli s’interroga su che cos’è fede. È la prova che Dio non si è affatto dimesso.
Se il più forte di noi si arrende, noi che già siamo deboli come ci dobbiamo sentire? La risposta è: ancora più deboli, perché mai, infatti, dovremmo essere forti? La rivolta del Papa è una sfida a leggere le cose all’incontrario di come esse sembrano e di come siamo abituati a fare. In questo senso molti hanno detto che il suo è un gesto di modernità. È vero a patto di considerare anche la sua modernità all’incontrario. La modernità dell’uomo coincide con il progresso: è moderno ciò che asseconda gli sviluppi della tecnica e ci dà una sensazione di onnipotenza.
La rivolta del Papa invece è moderna in quanto spezza questa coincidenza: non tutto ciò che è progresso è anche bene. E allora come si fa a distinguere? Ci vuole una umiltà estrema. È questo il senso della sua rivolta: con essa il Papa invita l’uomo e la Chiesa a ridefinire una nuova scala di valori partendo dalla propria debolezza. “Strappatevi il cuore, non le vesti”, ha detto nella sua predica al mercoledì delle ceneri. In un momento in cui l’umanità celebra il diritto a indignarsi, lui considera l’indignazione una delle gravi malattie del nostro tempo. Essa nasconde per il Papa la difficoltà di fare i conti con se stessi.
Ma perché ci lascia così deboli nelle mani di coloro che deturpano la Chiesa? Perché muove a loro come a noi la stessa sfida. Senza poterne determinare l’esito finale e senza sapere se sarà vinta. Ma se non si fosse dimesso e avesse atteso da Papa la chiamata di Dio, non ci avrebbe forse lasciato nelle stesse mani, di più rafforzate dalla convinzione di poter raccogliere la sua eredità? L’incertezza che la sua rivolta lascia nella Chiesa è l’ultimo dono che il Papa ci fa.
© Copyright Il Mattino, 17 febbraio 2013 consultabile online anche qui.
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1 commento:
mediatiamo, gente, meditiamo
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