venerdì 7 dicembre 2012

La libertà religiosa è indice di una sfida più vasta. L'editto del 313 e il dovere e diritto di cercare la verità (Angelo Scola)

L'editto del 313 e il dovere e diritto di cercare la verità

La libertà religiosa è indice di una sfida più vasta


Anticipiamo un estratto del discorso alla città e alla diocesi che il cardinale arcivescovo di Milano tiene nel pomeriggio di giovedì 6 dicembre nella basilica di Sant'Ambrogio in occasione della celebrazione vigiliare della memoria del santo patrono della città e compatrono della diocesi. «L'editto di Milano: Initium libertatis» è il titolo del discorso dedicato ai temi che innerveranno l'anno costantiniano indetto in occasione dei millesettecento anni dall'Editto di Milano.


di Angelo Scola


L'evoluzione degli Stati democratico-liberali è andata sempre più mutando l'equilibrio su cui tradizionalmente si reggeva il potere politico. Ancora fino a qualche decennio fa si faceva riferimento sostanziale ed esplicito a strutture antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni costitutive dell'esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l'educazione, la morte. Che cosa è accaduto quando questo riferimento, identificato nella sua origine religiosa, è stato messo in questione e ritenuto inutilizzabile? Si sono andate assolutizzando in politica delle procedure decisionali che tendono ad autogiustificarsi in maniera incondizionata. Ne è conferma il fatto che il classico problema del giudizio morale sulle leggi si è andato sempre più trasformando in un problema di libertà religiosa.

Di ferita alla libertà religiosa parla in modo esplicito la Conferenza episcopale degli Stati Uniti a proposito dell'Hhs Mandate, cioè della riforma sanitaria di Obama che impone a vari tipi di istituzioni religiose (specialmente ospedali e scuole) di offrire ai propri impiegati polizze di assicurazione sanitaria che includano contraccettivi, abortivi e procedure di sterilizzazione.
Il presupposto teorico dell'evoluzione sopra richiamata si rifà, nei fatti, al modello francese di laicité che è parso ai più una risposta adeguata a garantire una piena libertà religiosa, specie per i gruppi minoritari. Esso si basa sull'idea dell'in-differenza, definita come “neutralità”, delle istituzioni statuali rispetto al fenomeno religioso e per questo si presenta a prima vista come idoneo a costruire un ambito favorevole alla libertà religiosa di tutti. Si tratta di una concezione ormai assai diffusa nella cultura giuridica e politica europea, in cui però, a ben vedere, le categorie di libertà religiosa e della cosiddetta “neutralità” dello Stato sono andate sempre più sovrapponendosi, finendo così per confondersi. Nei fatti, per vari motivi a un tempo di carattere teorico e storico, la laicité alla francese ha finito per diventare un modello maldisposto verso il fenomeno religioso. Perché? Anzitutto, l'idea stessa di “neutralità” si è rivelata assai problematica, soprattutto perché essa non è applicabile alla società civile la cui precedenza lo Stato deve sempre rispettare, limitandosi a governarla e non pretendendo di gestirla.
Ora, rispettare la società civile implica riconoscere un dato obiettivo: oggi nelle società civili occidentali, soprattutto europee, le divisioni più profonde sono quelle tra cultura secolarista e fenomeno religioso, e non -- come spesso invece erroneamente si pensa -- tra credenti di diverse fedi. Misconoscendo questo dato, la giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato ha finito per dissimulare, sotto l'idea di “neutralità”, il sostegno dello Stato a una visione del mondo che poggia sull'idea secolare e senza Dio. Ma questa è una tra le varie visioni culturali (etiche “sostantive”) che abitano la società plurale. In tal modo lo Stato cosiddetto neutrale, lungi dall'essere tale fa propria una specifica cultura, quella secolarista, che attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili tendendo a emarginarle, se non espellendole dall'ambito pubblico. Lo Stato, sostituendosi alla società civile, scivola, anche se in maniera preterintenzionale, verso quella “posizione fondativa” che la laicité intendeva rispettare, un tempo occupata dal “religioso”. Sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde, almeno nei fatti, una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell'uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo Stato la fa propria finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa.
Come ovviare a questo grave stato di cose? Ripensando il tema della aconfessionalità dello Stato nel quadro di un rinnovato pensiero della libertà religiosa. È necessario uno Stato che, senza far propria una specifica visione, non interpreti la sua aconfessionalità come “distacco”, come una impossibile neutralizzazione delle mondovisioni che si esprimono nella società civile, ma che apra spazi in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all'edificazione del bene comune. Conviene tuttavia chiedersi: il modo migliore di affrontare questa delicata situazione è rivendicare una liberty of religion delle diverse comunità, chiedendo il rispetto delle “peculiarità” delle loro sensibilità morali minoritarie? Questa sola richiesta, anche se doverosa, rischia di rafforzare sulla scena pubblica l'idea secondo cui l'identità religiosa è fatta di nient'altro che di contenuti ormai desueti, mitologici e folcloristici. È assolutamente necessario che questa giusta rivendicazione si iscriva in un orizzonte propositivo più largo, dotato di una ben articolata gerarchia di elementi.
Questi troppo rapidi accenni mostrano non solo quanto il tema della libertà religiosa resti complesso, ma soprattutto ci spingono a riconoscere come, oggi più che mai, questo tema rappresenti la più sensibile cartina di tornasole del grado di civiltà delle nostre società plurali.
Infatti se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata posta in cima alla scala dei diritti fondamentali, tutta la scala crolla. La libertà religiosa appare oggi come l'indice di una sfida molto più vasta: quella della elaborazione e della pratica, a livello locale e universale, di nuove basi antropologiche, sociali e cosmologiche della convivenza propria delle società civili in questo terzo millennio. Ovviamente questo processo non può significare un ritorno al passato, ma deve avvenire nel rispetto della natura plurale della società.
Pertanto, come ho avuto modo di dire in altre occasioni, deve prendere l'avvio dal bene pratico comune dell'essere insieme. Facendo poi leva sul principio di comunicazione rettamente inteso, i soggetti personali e sociali che abitano la società civile devono narrarsi e lasciarsi narrare tesi ad un reciproco, ordinato riconoscimento in vista del bene di tutti.
In proposito vorrei solo accennare a una condizione secondo me imprescindibile di questo cammino arduo, ma improcrastinabile.
Acquisito l'insegnamento di Dignitatis humanae connesso a quell'initium libertatis inaugurato positivamente nell'Editto del 313, che l'adesione alla verità è possibile solo in maniera volontaria e personale e la coercizione esterna è contraria alla sua natura, bisogna riconoscere che questa doppia condizione resta nei fatti spesso irrealizzabile. Perché? Perché contemporaneamente non si persegue «quel dovere e quindi il diritto di cercare la verità» (Dignitatis humanae, 3) che toglie a ogni retta affermazione della libertà religiosa il sospetto di essere un altro nome dell'indifferentismo religioso che non può non porsi, almeno nei fatti, come una specifica mondovisione la quale, nell'attuale frangente storico, tende sempre più a far valere l'egemonia di una particolare visione del mondo sulle altre.
Che dire in proposito di fronte all'obiezione di quanti non soddisfano l'obbligo di cercare la verità per aderirvi? Anzitutto si deve ribadire che questa è sempre comunque la scelta di una mondovisione che ha cittadinanza in una società plurale, ma che non può essere surrettiziamente assunta come fondamento della aconfessionalità dello Stato.
Tuttavia ancor più decisivo è il libero invito loro rivolto a riflettere in che cosa consista tale obbligo. Agostino, genio espressivo dell'umana inquietudine, ne aveva carpito il segreto, come ci ricorda Benedetto XVI: «Non siamo noi a possedere la Verità dopo averla cercata, ma è la Verità che ci cerca e ci possiede». In questo senso, è la stessa verità, attraverso la pregnanza delle relazioni e delle circostanze della vita di cui ogni uomo è protagonista, a proporsi come “il caso serio” dell'umana esistenza e dell'umana convivenza. La verità che ci cerca si documenta nell'insopprimibile anelito con cui l'uomo ad essa aspira: Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?. E questo anelito rispetta la libertà di tutti, anche di chi si dice agnostico, indifferente o ateo. La libertà religiosa sarebbe altrimenti una parola vuota.

(©L'Osservatore Romano 7 dicembre 2012)

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