domenica 3 febbraio 2013

Il figlio del rabbino che diventò l'avvocato del crocefisso. Maria Antonietta Calabrò intervista Joseph H. H. Weiler


Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:

LA LETTURA

Il figlio del rabbino che diventò l'avvocato del crocefisso

Priorità «La religione non si limiti al privato: scenda nella sfera pubblica europea e affronti, per esempio, il declino demografico»

di Maria Antonietta Calabrò

Se ancora oggi nelle aule italiane si può esporre il crocefisso lo si deve a Joseph H. H. Weiler, americano, ebreo osservante, figlio di un rabbino, che è stato letteralmente «l'avvocato del crocefisso» davanti alla Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell'uomo, nella causa «Lautsi contro Italia». È membro dell'Accademia americana delle arti e delle scienze. Uno dei suoi seminari alla New York University School of Law per questo semestre è incentrato su «Leggi religiose e la sfida della scienza e dei costumi contemporanei».

Professor Weiler, lei è un giurista e un credente. Qual è il ruolo che la religione può svolgere nello spazio pubblico?

«Nel pensiero laico, oggi, si sostiene che la religione sia una cosa privata, debba occuparsi della crisi privata della vita, della concezione personale della vita, ma che la vita pubblica debba essere lasciata agli altri. Invece non è necessariamente così, e non è ovunque così, nella storia della democrazia. Pensiamo alla madre di tutte le democrazie, la Gran Bretagna. Ecco: in Gran Bretagna la maggiore autorità ecclesiastica anglicana, l'arcivescovo di Canterbury, ha un posto di diritto tra i legislatori. Fa parte del Parlamento ex officio, cioè nella sua qualità di capo spirituale della Chiesa anglicana. Per ragioni di uguaglianza anche il primate cattolico fa parte del Parlamento e, per ragioni di cortesia, hanno invitato tra i legislatori anche il rabbino capo. Tutto questo è accettato dalla popolazione britannica, che pure non è religiosa in maniera attiva nella sua grande maggioranza».

E questo perché avviene?

«Perché la religione, e in particolare la tradizione cristiana, viene considerata in Gran Bretagna come parte integrante della storia del Paese, come un modo di interpretare la realtà sociale, economica e politica. E nella House of Lords, nei dibattiti importanti, su questioni cruciali, viene considerato importante anche da quelli che non sono cristiani, o religiosi, ascoltare le riflessioni che provengono dalla tradizione cristiana: insomma, viene ritenuto importante che questa riflessione faccia parte del processo legislativo non solo simbolicamente. Che cioè sia un elemento cruciale per arrivare a una decisione giusta per il popolo britannico. Pensiamo invece allo scandalo che potrebbe esserci in Italia se il presidente della Cei, cardinale Bagnasco, facesse parte ex officio del Senato della Repubblica! 
Eppure il papa Benedetto XVI nel suo importantissimo discorso al Bundestag, a Berlino, ha dato in termini filosofici una risposta autorevole alla teoria di Rawls, per cui la religione deve stare fuori dello spazio pubblico. Il Papa invece afferma che quando il cristiano entra nel dibattito pubblico lo fa in forza della ragione e del diritto naturale, non della fede, o della Rivelazione e perciò non può essere escluso dal dibattito pubblico laico e pluralistico. Nota bene: questo non è solo un privilegio, ma impone anche una responsabilità della Chiesa. Il discorso al Bundestag non era soltanto profondo, ma anche coraggioso».

In che senso, secondo lei, la riflessione della Chiesa può aiutare le democrazie europee?

«Farò un esempio. Il problema più grave dell'Europa non è l'euro: il problema più importante dell'Europa è la sua crisi demografica, il fatto che gli europei non facciano abbastanza bambini. Questo non è un tema affrontato dai politici, perché è un problema della società con il quale non si vincono o perdono le elezioni ogni quattro o cinque anni: è un problema i cui effetti si vedono dopo venti, trent'anni. Le religioni seguono un altro ritmo, e perciò possono mettere sul tappeto problemi di tipo diverso».

Cos'è allora prioritario?

«Le tradizioni religiose possono arricchire il discorso sulla crisi demografica, affrontando il problema non soltanto in termini economici e sociologici, ma anche antropologici, e proprio come una crisi della condizione umana. La tradizione pluralistica dell'Europa è da celebrare, essa vuole prendere in considerazione più di un solo punto di vista».

I temi cosiddetti eticamente sensibili sono al centro del dibattito legislativo, in Europa e negli Usa: dall'aborto al fine vita, alla questione — specie negli ultimi tempi — dei matrimoni gay. Che cosa ne pensa?

«Per fortuna c'è pieno e comune consenso sul fatto che la persecuzione storica nei confronti degli omosessuali deve finire. Consideriamo barbarici i Paesi dove l'omosessualità è ancora un reato penale. E naturalmente non c'è alcun motivo di discriminare gli omosessuali sul posto di lavoro, con riferimento al problema dell'abitazione, e così via. Io sono contrario alla trasposizione tout court della religione e dei precetti religiosi nelle leggi positive, sono contrario per esempio a fare della sharia musulmana o della halakha ebraica parte della legge generale. Quanto ai matrimoni gay, sia negli Usa che in Europa il dibattito è aperto. Detesto gli omofobi. Ma non considero omofobia il desiderio di alcuni, compresa la Chiesa, di proteggere la famiglia classica, considerata da tanti un fondamento della società. Soprattutto negli Usa il crollo della famiglia classica ha provocato secondo tanti studiosi crisi sociali profonde. Si può non essere d'accordo, ma non è il caso di demonizzare questa posizione. Io penso che il dibattito legislativo su questi temi durerà ancora a lungo».

Qual è secondo lei la sfida e la promessa dell'homo religiosus, oggi?

«Ci sono due modi di capire l'amore: posso leggere il saggio di Stendhal sull'amore; oppure posso capire l'amore quando m'innamoro: è allora che capisco l'amore esperienzialmente. L'esperienza vissuta dagli uomini religiosi è l'esperienza di tensione alla santità che va ben oltre essere una persona morale o etica (i religiosi non hanno il monopolio dell'etica, è un peccato di superbia dei fedeli pensarlo). È quest'esperienza o tensione alla santità che ci fa vivere come peccatori ma ci apre anche alla speranza».

© Copyright Corriere della sera, 4 febbraio 2013

1 commento:

Elmer ha detto...

Un grazie a J. Weiler.
Le capitali della nostra cultura sono Gerusalemme,Roma e Atene se difendiamo questo grande patrimonio salveremo il nostro futuro e la nostra libertà.
Solo in Dio l'uomo ha una sua dignità.Cristo ci ha ridato la vita in quella croce stupenda e gloriosa, trono, talamo e altare!
Papa Benedetto XVI ripete queste cose da anni. Lui sempre ci precede...lo Spirito Santo, non invano, lo volle successor del Maggior Piero!