Il Vangelo annunciato con i gesti
Un Vangelo annunciato più con i gesti che con le parole. È la proposta di vita che le piccole sorelle di Charles de Foucauld conducono da anni nei Paesi in cui i cristiani sono una minoranza. Un'occasione per tutti i religiosi per riflettere su come evangelizzare puntando all'essenziale e adattandosi ai cambiamenti della società e delle culture. Ne parla in questa intervista al nostro giornale suor Maria Chiara di Gesù, superiora generale della fraternità delle piccole sorelle di Gesù.
La fedeltà al concilio Vaticano II chiede ai consacrati di valutare con coraggio gli errori umani e i percorsi mancati puntando soprattutto su carisma, vita comunitaria, formazione, apostolato. I consacrati sanno guardare al futuro ancorandosi a questi valori?
Il Vaticano II è stato anzitutto un avvenimento di grande gioia e apertura al cambiamento. Per la nostra fraternità è stato anche una conferma e incoraggiamento a continuare in questa forma di vita che la Chiesa aveva accettato circa 20 anni prima. La fedeltà al Vaticano II oggi non può naturalmente essere una ripetizione di gesti o parole di quel tempo, ma direi un nuovo atteggiamento di fiducia e speranza nel e per il contesto attuale. Per esempio, inventare un nuovo amore per il nostro mondo, con le sue tragedie, bellezze, contraddizioni, conflitti e fratture. Come diceva Martin Buber: «Se abbracciamo il mondo, con tutti i suoi orrori, incontreremo le Mani di chi sorregge il mondo». Per i cristiani oggi, le sfide sono molto grandi; essi sono perseguitati in molti Paesi, in molti altri la crisi della fede è profonda, nella Chiesa stessa la fragilità è più visibile e più riconosciuta. Ciò che può far batter il cuore dei consacrati forse non è fare la revisione di vita su errori di visione e di percorso passati, anche se questo è necessario e importante, ma risentire la voce di Gesù che ci chiama per questo tempo e questo mondo.
Il signum fraternitatis è il modello più efficace per vivere la vita di fede in Cristo. Si vive tendendo veramente all'unità all'interno delle comunità?
L'unità è una parola chiave nella nostra vita di piccole sorelle di Gesù. Per piccola sorella Magdeleine, la nostra fondatrice, essa riassumeva interamente la vocazione della fraternità. Ma il concetto stesso ha subito un'evoluzione nel tempo ancora relativamente breve della nostra esperienza di vita. Inteso a volte come uniformità, o, più raramente, come esigenza di uguaglianza di vedute e di intenti, il senso di questa parola è «scoppiato», se così si può dire, al contatto con la diversità sempre più grande di culture, e con una conoscenza di sé arricchita da alcuni elementi della psicologia. Nella vita comune la tensione all'unità è nello stesso tempo un apprendimento costante della diversità, che chiede rispetto e conoscenza delle differenze. L'unità non è un ingrediente naturale del vivere insieme, ma una sfida continua. Tendere all'unità svela le nostre più profonde divisioni interiori, che rispecchiano bene quelle del mondo in cui viviamo. Solo Gesù è infine l'artefice vero ed unico dell'unità per la quale ha pregato e ha dato se stesso.
I consacrati sono stati spesso i pionieri dell'evangelizzazione soprattutto in terra di missione. Cosa motiva questo slancio?
Come comprendere lo slancio dell'evangelizzazione? E soprattutto come attuarlo nei diversi contesti di oggi? Solo un amore ardente, nutrito ogni giorno, può suscitare il desiderio di raccontare, far partecipi, condividere quello stesso amore con altri. I modi possono variare. Per noi piccole sorelle, nate in Algeria, in un contesto completamente musulmano, la maniera pratica dell'evangelizzazione, del portare Gesù agli altri, si traduce in un insieme di gesti, in un atteggiamento di vita, in relazioni, in amicizia, solidarietà, gesti di perdono. Un Vangelo in gesti e con poche parole. Certo, questo rischia di impoverire il messaggio, che rimane così legato alla debolezza delle nostre stesse persone. Ma ci permette fino ad oggi di abitare e vivere in luoghi dove la Chiesa non potrebbe essere presente in altro modo.
Non sfugge il legame tra evangelizzazione, monachesimo e contemplazione. Quali prospettive vede per il futuro?
Rowan Williams ha ben evidenziato questo legame nel suo intervento al Sinodo per la promozione della nuova evangelizzazione, sottolineando anche come testimonianza di vita e annuncio siano in fondo una cosa sola. Come direbbe Ignazio, senza il «Principio e fondamento», cioè senza l'atteggiamento di personale conversione a Lui, tutti gli strumenti, per quanto efficaci, risulteranno sterili alla fine. Un vescovo in Algeria ha detto un giorno: «non ci possiamo preoccupare di statistiche e numeri, abbiamo troppo da fare per annunciare il Vangelo e convertire noi stessi, la preoccupazione della Chiesa spetta a Dio, non a noi». Ecco, in questa prospettiva, penso che le energie debbano essere spese in vista del fine unico, che è di vivere con Lui, per Lui, in Lui. Ciò che brucia nel cuore, ciò che ci fa profondamente vivere, solo quello può nutrire e dare senso all'evangelizzazione. La contemplazione può rimanere una parola “vaga” o addirittura vuota, se non la si comprende come un modo concreto di entrare nella vita di Gesù, e lasciare Lui entrare e sconvolgere la nostra. E questo in avvenimenti, tempi e luoghi ben precisi della nostra storia e della nostra missione. Penso in questo momento per esempio alla Siria.
L'esperienza delle piccole sorelle di Charles de Foucauld cosa consiglia alla vita consacrata femminile?
Sarebbe presuntuoso dare consigli ad altri, per noi si tratta semmai di imparare a riceverne e farne tesoro. Ma se dovessimo dire una parola, la direi volentieri a partire da quel contesto di vita che è stato il mio per circa 30 anni, e cioè il Medio Oriente, e in particolare quella che chiamiamo «la terra di Gesù». Lì si impara che non ci sono tempi o condizioni ideali per seguire Gesù. Ma c'è un'urgenza continua, come un grido della terra che invoca e attende, direi dal femminile in particolare, rispetto, attenzione, amore e cura per la vita umana. Questo non significa relegare la donna religiosa a compiti unicamente materni, ma significa dare luogo e voce a questi aspetti della missione che sono essenziali. Soprattutto nel nostro tempo, in cui un po' ovunque, la vita è fragile e minacciata.
Oggi nella vita religiosa viene valorizzato adeguatamente il ruolo peculiare della donna o la sua presenza viene ancora vista non pronta ad autodeterminazione e responsabilità piena per la missione?
Anch'io vorrei fare una domanda; come si sentono gli uomini, in particolare i religiosi, quando leggono l'imperativo della Genesi: «Non è bene che l'uomo sia solo!»? Quando c'è un problema di ruolo o di valorizzazione e riconoscimento della donna, c'è anche un problema di comprensione del ruolo e valore dell'uomo. La tensione verso l'unità inizia lì. (nicola gori)
(©L'Osservatore Romano 3 febbraio 2013)
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