sabato 9 febbraio 2013

Ingredienti per una buona politica. Come rispondere all'impoverimento ideale e all'inquinamento morale (Giorgio Napolitano)

Come rispondere all'impoverimento ideale e all'inquinamento morale

Ingredienti per una buona politica


di Giorgio Napolitano


Mi associo ben volentieri all'omaggio che viene reso a sua eminenza il cardinale Gianfranco Ravasi, figura eminente della Chiesa cattolica e personalità più generalmente riconosciuta del mondo della cultura: uomo aperto a ogni dialogo, come ho potuto anche personalmente sperimentare. Spero dunque che questo mio contributo, senza avere come altri la dimensione e il livello dello “studio in onore” del festeggiato, possa essere accolto come proposta “di ulteriore dialogo”, o di riflessione comune, su un tema che ci sollecita entrambi. Il tema, cioè, della “componente ideale” propria di una seria scelta politica.

Parlai, in una mia lezione (all'università di Bologna) nel gennaio 2012, dell'«appannarsi di determinati moventi dell'impegno politico, inteso come impegno di effettiva e durevole partecipazione» (individuale e collettiva). E indicai, tra i moventi che si sono affievoliti, quella che anche moderni scienziati della politica hanno chiamato “la forza degli ideali”. È un fenomeno che ha accompagnato il mio peraltro fisiologico distacco dall'attività politica o più concretamente partitica e che -- nel tirare autobiograficamente le somme della mia lunga esperienza -- definii «grave e allarmante». Impoverimento culturale della politica, sua «sfrenata personalizzazione, smania di protagonismo, ossessiva ricerca dell'effetto mediatico» e nel contempo «perdita, da parte dei partiti, di radicamento sociale e di vita democratica nelle istanze di base», insieme col crescere di «una diffusa spregiudicatezza nella lotta per il potere e nella gestione del potere».
Il visibile impoverimento ideale e culturale della politica ha rappresentato il terreno di coltura del suo inquinamento morale. E non è questa la sede in cui interrogarmi sul futuro, su una possibile, graduale ma netta, inversione di tendenza. Posso tutt'al più ribadire programmaticamente la mia fiducia nella conclusione che Thomas Mann suggeriva ai tedeschi nel pieno della catastrofe provocata dalla degenerazione estrema della politica, quella del barbarico totalitarismo e bellicismo nazista: «La politica non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e culturale, mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura».
Ma come -- ecco quale può essere la materia di un dialogo rinnovato e approfondito -- va intesa quella “componente ideale”? Come ha operato politicamente nel passato vissuto dalla mia e da altre generazioni “la forza degli ideali”? Ha operato, si può rispondere, nella forma delle ideologie, di grandi ideologie contrapposte, e oggi invece non è così che si può intendere la rinascita di una “componente ideale” come molla e guida dell'agire politico.
In effetti, non spiega molto, e non ha mai spiegato molto, la formula che a suo tempo diventò di moda: “la fine (o la morte) delle ideologie”. Anche perché l'attenzione si concentrò, comprensibilmente, sul crollo di una ideologia: quella comunista, travolta nel collasso dei regimi che a essa si ispiravano, in Europa centro-orientale e in Unione Sovietica. Molto più limitata, e sfuggente, rimase ed è rimasta la rivisitazione -- e la stessa ri-definizione -- dell'ideologia che si era contrapposta a quella comunista: ideologia del libero mercato, ovvero di uno sviluppo capitalistico affidato al libero giuoco delle forze di mercato? O ideologia delle istituzioni liberal-democratiche del-l'Occidente come punto d'arrivo della storia?
Comunque, l'ideologia conservatrice è sopravvissuta alla fine del comunismo, assumendo sempre più le sembianze di quel “fondamentalismo di mercato”, tradottosi in deregulation e in abdicazione della politica, che solo la crisi finanziaria globale scoppiata nel 2008 avrebbe messo in questione.
Certo, è stato impossibile -- se non per piccole cerchie di nostalgici sul piano teoretico e di accaniti estremisti sul piano politico -- sfuggire alla certificazione storica non solo del fallimento dei sistemi economici e sociali d'impronta comunista, ma del rovesciamento di quell'utopia rivoluzionaria che conteneva in sé promesse di emancipazione sociale e di liberazione umana e che aveva finito -- come, con fulminante espressione, disse Norberto Bobbio -- per «capovolgersi», nel convertirsi di fatto nel suo opposto. Anche se può discutersi l'uso -- a proposito del movimento comunista e della sua visione -- del termine “utopia”.
Vale senza dubbio, in riferimento allo svolgimento, sempre più involutivo, di quell'esperienza, il fondamentale avvertimento di Isaiah Berlin, che riconosceva tutto il valore delle utopie, ma aggiungeva che «come guida al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali». In effetti, la dottrina e la prassi comuniste -- che pure esprimevano una pretesa di scientificità («l'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza») -- avevano proprio la rigidità, onnicomprensività e autosufficienza di una ideologia militante.
Ma non è possibile -- ecco ancora un interrogativo attorno al quale varrebbe forse la pena di dialogare -- secernere da ideologie contrapposte, riconsiderate nella loro ascesa e nel loro declino, riferimenti positivi per individuare quella irrinunciabile “componente ideale” della politica da cui sono partito in questo mio abbozzo, o proposta, di riflessione?
Non si può confondere, sia chiaro, “la forza degli ideali” o la motivazione ideale che spinge all'agire politico e dovrebbe sorreggerlo, con un approccio fideistico: e invece ritengo -- basandomi sulla mia personale esperienza e memoria -- che nell'adesione e nell'attaccamento di tanti al partito comunista, quale risorse in Italia dopo la liberazione dal fascismo, un elemento di fideismo vi fu, e venne anche dall'alto della sua dirigenza. In un singolare quanto spurio confronto -- aggiungo -- con il fideismo religioso: non si giunse (da parte comunista) in quegli anni di nuovo inizio, a parlare di “due fedi”? O -- in termini già un po' meno ideologici e più politici -- di “due universalismi”?
Ciò di cui parlo è dunque altro: un pieno e limpido, razionale recupero a una visione laica della politica degli ideali della libertà (politica e anche economica), della giustizia, promozione e protezione sociale, della solidarietà come dovere e sentimento individuale e come responsabilità e prassi collettiva, del più ricco sviluppo della persona e della costruzione di un ordinamento fondato su ineludibili diritti e doveri comuni.
Non possono questi ideali, sottratti agli irrigidimenti e alle estremizzazioni di carattere ideologico, essere perseguiti attraverso programmi e indirizzi diversi, nel vivo di una competizione politica e culturale democratica, e costituire al tempo stesso il sostrato comune di un impegno costituzionale, al livello nazionale e al livello europeo? Non si può forse già cogliere un quadro di risposte tanto -- per parlare dell'Italia -- nell'impianto della Costituzione repubblicana, quanto nelle formulazioni di principio su cui si è fondata e si fonda la costruzione dell'Europa unita?
Vedo in tutto ciò materia di dialogo anche tra credenti e non credenti. Perché i credenti, e segnatamente i cattolici italiani, hanno il loro punto di vista da far valere e il loro contributo da dare. È un fatto che nei principi e negli indirizzi costituzionali sanciti sia in termini nazionali sia in termini europei (tra questi ultimi, quelli riassumibili nell'ancoraggio a una “economia sociale di mercato”), si sono calati valori sentiti come autenticamente cristiani. Quanto l'adesione a questi valori possa essere vissuta in termini di fede e in sintonia con la pratica religiosa, è aspetto non secondario dell'approfondimento e della riflessione comune che sollecito sulla possibile, necessaria rinascita della componente ideale e morale dell'agire politico. Approfondimento, riflessione, cui da pochi può venire un apporto alto e sereno come da Gianfranco Ravasi.

(©L'Osservatore Romano 8 febbraio 2013)

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