Ol’ga Sedakova.
All’inizio non ci ho creduto. Mi sembrava inverosimile. Soprattutto perché, io come molti altri, avevamo in mente l’immagine del Pontificato precedente. Negli ultimi anni di Giovanni Paolo II alcuni avevano espresso l’opinione che in un tale stato di debolezza sarebbe stato meglio ritirarsi; ma Giovanni Paolo mostrò che il ministero vissuto nella debolezza ha un grande valore spirituale. Ad un mondo che ha paura della malattia e della vecchiaia, egli testimoniò la grande forza che «si compie nella debolezza». E il suo sacrificio mi aveva suscitato profonda venerazione.
La stessa profonda venerazione mi suscita ora la decisione di Benedetto XVI. Leggendo il testo della sua Declaratio, è impossibile non avvertire l’immenso lavoro spirituale sotteso a questa decisione, e come essa sia stata presa al cospetto di Dio che aveva affidato al Papa la Sua Chiesa, la «nave della Chiesa». Questa sensazione di uno stare di fronte al volto di Dio, di una profonda coscienza della responsabilità storica, è ciò che ho sempre percepito nelle opere teologiche di Benedetto XVI, anche di quelle firmate ancora con il nome di Joseph Ratzinger. Non c’è niente di esteriore, tutto scaturisce dal profondo di un’anima colma di fede e di un’intelligenza fulgida.
La sua sensibilità del momento storico, della drammatica crisi attraversata dalla nostra civiltà emerge tutta in un piccolo episodio. Una volta, insieme ad un gruppo di uomini di cultura venuti da Mosca, ebbi l’occasione di incontrare il cardinale Ratzinger, e gli venimmo presentati tutti, uno a uno, con il nome e la professione. Io fui presentata come «poetessa». «Una vera poetessa?», chiese Ratzinger, guardandomi con molta attenzione (il suo sguardo mi ricordava un professore durante l’esame). Io ero imbarazzata a rispondere, ma i miei compagni (tra loro c’era anche il filosofo Sergej Averincev) confermarono con entusiasmo. «Allora mi trovi le sue poesie tradotte in qualunque lingua», disse ad uno dei suoi collaboratori: «Questa è una cosa molto importante».
L’audacia. «Perché è importante?», chiesi io stupita. Che cosa mai poteva importare ad un alto personaggio della Chiesa della qualità dei versi della prima venuta, tanto più in una lingua straniera? «Finché continueranno ad esistere dei veri poeti, dei veri artisti - rispose lui - significa che il nostro mondo non è ancora abbandonato dall’ispirazione, cioè dallo Spirito». L’ispirazione artistica - quando si tratti di un «vero» artista - aveva evidentemente per lui il valore di una testimonianza.
Un Papa che si era soliti definire «conservatore» ha preso una decisione di incredibile novità. Mi hanno commosso nel profondo le parole con cui conclude il suo messaggio, dicendo che affida la Chiesa al suo Capo, Cristo. Dietro a questa frase io vedo una sorta di profondissima visione evangelica dello stato delle cose nel mondo. Lui, sommo pastore, è stato mandato a «pascere le pecore», ma queste pecore appartengono allo stesso Cristo.
Io percepisco in questo la stessa libertà e audacia spirituale con cui Joseph Ratzinger, già nel 1969, pensava al futuro della Chiesa, e sono sicura che anche ora queste sue previsioni spaventano molti, mentre per molti diventano la strada: «Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la Fede al centro dell’esperienza. Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti. Allora la gente vedrà quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto».
© Copyright Tracce, marzo 2013
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