venerdì 14 dicembre 2012

Concilio e dopo concilio secondo il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso (Tauran)

Concilio e dopo concilio secondo il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso

La Chiesa mezzo secolo dopo


Pubblichiamo ampi stralci di una conferenza tenuta dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso nell'ambito del convegno «La France et le Concile Vatican ii» che si è svolto presso il Centro di archivi diplomatici a La Courneuve.


di Jean-Louis Tauran


Sono arrivato a Roma nell'ottobre 1963, per studiare all'Università Gregoriana. Il pontificio seminario francese accoglieva allora più della metà dei vescovi francesi che partecipavano al concilio e per favorire l'ospitalità eravamo in due per ogni camera. Devo dire che, durante le sessioni conciliari, lo studio e il raccoglimento risentivano un po' di quel sovraffollamento. Eravamo comunque testimoni della libertà interiore di quei vescovi che erano indubbiamente consapevoli della grandezza degli eventi di cui erano i protagonisti, pur non osando “prevedere” quello che sarebbe stato “il dopo-concilio”.

Ho conservato una cartolina che il mio arcivescovo, il cardinale Paul Richaud, alla fine dei lavori conciliari mi aveva inviato a Beirut, dove svolgevo il servizio militare. Mi scriveva: «Il concilio si è appena concluso e sono tornato a Bordeaux. Come mi dispiace che lei non sia potuto stare con noi per la chiusura: il trionfo della santa Chiesa». Una cosa era certa: Papa Giovanni XXIII aveva specificato bene che il concilio non aveva come fine quello di disprezzare il mondo moderno, di lamentarsi di ciò che andava male, ma doveva più in generale «utilizzare la medicina della benevolenza piuttosto che quella della severità», evitando il più possibile «il linguaggio della condanna».
«Il concilio -- disse -- vuole trasmettere pura e integra la dottrina cattolica, senza attenuazioni o travisamenti (...) Ma nelle circostanze attuali il nostro dovere è che la dottrina cristiana nella sua interezza sia accolta da tutti (...) Bisogna che questa dottrina certa e immutabile, alla quale è dovuto ossequio fedele, sia esplorata ed esposta nella maniera che l'epoca nostra richiede. Altra è la sostanza del depositum fidei (...) ed altro è il modo in cui vengono enunciate» (allocuzione dell'11 ottobre 1962).
Durante le sessioni, gli studenti del seminario si recavano spesso al centro culturale Saint-Louis per ascoltare le conferenze di padre Congar, di padre Chenu o di monsignor Haubtmann. Ci rendevamo allora conto della differenza che c'era tra ciò che ci veniva insegnato alla Gregoriana e le idee che germogliavano nell'aula conciliare.
Dal 1960 al 1969 monsignor Paolo Bertoli fu nunzio in Francia. Un nunzio attento e cordiale. Fin dal mio arrivo nel Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, nel luglio 1983, mi invitò a incontrarlo per ascoltare le mie impressioni sulla situazione in Libano, dove avevo appena servito per quattro anni nella nunziatura apostolica. Amava quel Paese dove era stato nunzio apostolico. In quegli incontri mi parlò spesso della sua missione a Parigi. Fu così che mi raccontò che il capo dello Stato, il generale de Gaulle, era solito invitarlo due volte all'anno a pranzare con lui. Fu durante uno di quegli incontri che il generale gli confidò che, a suo parere, il concilio Vaticano II era l'evento più importante del XX secolo, non solo per la Chiesa ma per il mondo, per i valori offerti al mondo (libertà, giustizia, pace), ma anche per il coraggio di fare un esame di coscienza. In questo campo nessuna società umana era andata così lontano.
Comunque sia, tutti ammettono che il Vaticano II è stato l'evento religioso più importante del XX secolo. Duemilaottocento vescovi hanno accettato di considerare insieme come guidare la Chiesa in modo più collegiale. Hanno adottato un atteggiamento di benevolenza nei loro rapporti con il mondo: bastava rammentare il principio della libertà religiosa, l'opportunità di un dialogo ecumenico e del dialogo interreligioso. Come non ricordare i messaggi che i padri conciliari hanno rivolto alla fine del concilio: ai governi, agli uomini del pensiero e della scienza, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri, ai malati, a tutti coloro che soffrono, ai giovani.
Yves Congar ha spiegato bene che cosa distingue un concilio da un resoconto scritto dell'episcopato: «La forma sinodale è molto più di una consultazione, è una comunione». D'altronde lo stile dei documenti conciliari è rivelatore. Le parole che appaiono più spesso non sono parole di condanna, ma di benevolenza: «fraternità, cooperazione, amicizia, collaborazione, dialogo, collegialità». Certo, sono parole che appartengono al tesoro della Chiesa, ma che sembravano risuonare per la prima volta nella navata della basilica di San Pietro.
A dire il vero, alla fine del concilio, nel 1965, regnava un clima di ottimismo come era accaduto nella fase preparatoria dal 1959 al 1962: si credeva a un percorso lineare, senza discontinuità, senza ritorno al passato. Giovanni XXIII non aveva infatti parlato di «primavera» della Chiesa e di «nuova Pentecoste»? In realtà, il dopo-concilio ha indubbiamente conosciuto un rinnovamento, ma anche molte derive. Per il cristiano comune o per l'osservatore disinteressato il primo effetto visibile di quel concilio sono stati i cambiamenti in materia di liturgia (uso della lingua vernacolare, sacerdote rivolto verso l'assemblea, importanza conferita alla liturgia della Parola). Cinque anni prima sarebbe stato impensabile.
In una conferenza pronunciata nel 1992, il cardinale Joseph Ratzinger identificava tre fasi del dopo-concilio: una prima fase di euforia (1965-1968), un periodo di delusione (1970-1980) e un periodo di sintesi, a partire dal 1990.
Quali sono i risultati positivi generati da questo concilio?
Ci sono sicuramente la (ri)scoperta della Bibbia letta nelle lingue moderne, soprattutto nell'ambito della liturgia rinnovata, e una visione della Chiesa quale popolo di Dio, dove accanto alla gerarchia tutti i battezzati sono chiamati a essere membri attivi. La caratteristica principale di questo concilio è che non venne convocato per risolvere problemi ma per essere una celebrazione della Chiesa nel mondo e per il mondo. Per la prima volta nella storia, i cattolici venivano invitati a instaurare relazioni cordiali con i cristiani non cattolici e addirittura a pregare con loro: la Chiesa entrava in dialogo con altre Chiese. Per la prima volta il Magistero riconosceva che la santità si poteva trovare anche nelle altre religioni e che queste potevano apportare «un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (Nostra aetate, n. 2). Certo, già nel ii secolo, Giustino aveva parlato dei «semi del Verbo» sparsi ovunque nel mondo, ma la sua dottrina era stata in parte dimenticata.
A tale proposito, permettete che il presidente del Consiglio per il Dialogo Interreligioso ricordi che la dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostrae aetate) non è stata adottata facilmente. Ha persino rischiato di essere ritirata dall'agenda, mentre era stato lo stesso Giovanni XXIII a inserirvela. In una prima versione, il testo affrontava solo il tema della responsabilità dei cristiani di fronte alla Shoah, il che suscitò obiezioni per motivi teologici e politici: un documento sugli ebrei non sarebbe stato interpretato, nei Paesi arabi, come una tappa verso il riconoscimento dello Stato d'Israele da parte della Santa Sede? Fu necessario assicurare che la Nostra aetate non aveva nulla a che vedere con Israele perché alla fine il documento fosse adottato, dopo averlo però allargato ad altri gruppi religiosi, in particolare ai musulmani. Quei musulmani che siamo invitati a conoscere meglio e a capire meglio per «difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» (ibidem, n. 3).
Noto en passant che pochi decreti del concilio risultano altrettanto opportuni dopo quanto accaduto l'11 settembre 2001. Questo testo conferisce ai cattolici un ruolo particolare di attori della riconciliazione nell'attuale situazione internazionale. A tale proposito, Benedetto XVI sta rendendo un servizio immenso alla causa del dialogo interreligioso, con i suoi gesti, le sue visite e i suoi discorsi.
Gli ambiti che da cinquant'anni mobilitano i responsabili della Chiesa sono stati dunque la liturgia e la catechesi. La liturgia per prima, in quanto è il primo ambito istituzionale in cui la Chiesa si esprime: modificare la liturgia vuol dire modificare l'idea che abbiamo di Dio, del sacerdote e della Chiesa. Non meraviglia che sia diventato un campo di battaglia. Nella liturgia si sono scontrati i diversi modi d'intendere i ministeri, la partecipazione alla vita della Chiesa, la concezione della Chiesa come popolo di Dio, le relazioni della Chiesa con il mondo e con gli altri cristiani.
Poi la catechesi, ambito simbolico per eccellenza, ambito di formazione e di trasmissione. Anch'essa generò molte battaglie che ebbero inizio in Olanda. Fu necessario attendere il 1992 per avere il Catechismo della Chiesa cattolica.
Bisogna però menzionare anche un terzo tema che mobilitò la Chiesa del dopo-concilio, il governo: la figura del Papa e il ruolo della curia romana, la figura del parroco e della parrocchia. Con il Vaticano II e l'affermazione della collegialità, l'istituzione del Sinodo dei vescovi, la creazione delle Conferenze episcopali, la valorizzazione dei consigli e dei sinodi diocesani hanno posto in modo radicale la questione dei rapporti della Chiesa locale con la Chiesa universale.
Questi cambiamenti sono stati presentati all'opinione pubblica grazie ai media. Durante il concilio, giornalisti specializzati nell'informazione religiosa non hanno solo informato ma talvolta hanno anche influenzato, anzi condizionato, i vescovi e gli esperti. Come non ricordare quanto dichiarato dalla costituzione dogmatica Lumen gentium: «Esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva» (n. 13).
Il Vaticano II è il primo concilio ad avere posto in modo sistematico la questione dei rapporti della Chiesa con le comunità cristiane separate e con le religioni non cristiane. Si capisce allora perché la costituzione Lumen gentium inizi definendo la Chiesa come sacramento, «ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (n. 1).
Il valore di un concilio non si basa tanto sui decreti quanto sulla loro applicazione. Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno avuto il coraggio di mantenere questa rotta.
La riforma liturgica; la pubblicazione di un nuovo codice di diritto canonico (1983); la convocazione di assemblee sinodali; l'impulso dato alle Conferenze episcopali; l'importanza attribuita alle Chiese locali (sinodi diocesani); l'aumento delle relazioni diplomatiche della Santa Sede; la promozione del laicato; l'immagine più fraterna del sacerdote; il dialogo ecumenico; il dialogo interreligioso: tutto ciò è frutto del concilio Vaticano II.
Ma molti ostacoli e cedimenti hanno oscurato il quadro: la secolarizzazione e il consumismo, che hanno favorito l'indifferenza religiosa e contribuito a ridurre il numero dei praticanti; la contestazione interna alla Chiesa tra conservatori a oltranza e fautori di un rinnovamento troppo rapido; la defezione di numerosi sacerdoti, religiosi e religiose; la diminuzione delle vocazioni; l'instabilità politica di molti Paesi. Poi, nel 1978, sopraggiungono inattese l'elezione a Sommo Pontefice dell'arcivescovo di Cracovia e nel 1989 e la riapertura dei Paesi del Centro e dell'Est dell'Europa. Giovanni Paolo II e la caduta del Muro di Berlino mostrarono la debolezza di un sistema che alcuni consideravano invincibile, e la forza della resistenza religiosa. In cinquant'anni siamo passati dal regime di cristianità a una Chiesa-comunione.
Il problema che si pone oggi è di sapere come la Chiesa deve essere presente nel mondo attuale. Non si tratta per la Chiesa di costruire un mondo cristiano accanto a un mondo agnostico, ma di rendere cristiano il mondo così come si costruisce, così come noi lo forgiamo. La Chiesa è sempre stata nel mondo e la costituzione Gaudium et spes ricorda che essa «cammina insieme con l'umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena» (n. 40). La Chiesa deve agire come un lievito, ma riceve dal mondo tanto quanto dà. Il concilio Vaticano II «offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione» (n. 3). La Chiesa e il mondo sono interdipendenti.
Questo cinquantesimo anniversario è anche l'occasione per ricordarci del posto occupato dai concili nella vita della Chiesa. La Chiesa è strutturata gerarchicamente. Gesù ha scelto e istituito i Dodici perché fossero le colonne del tempio spirituale. Si è colpiti nel vedere negli Atti degli apostoli come un regime collegiale si articoli continuamente in una struttura gerarchica. Pensiamo al concilio di Gerusalemme tenuto dalla Chiesa cattolica: ci fu una consultazione in vista di una decisione che non fu quella di una singola persona ma dell'intero collegio. Un concilio non è un Parlamento. È una manifestazione del-l'unanimità della Chiesa nella fede ereditata dagli Apostoli. I vescovi riuniti in concilio non sono i delegati delle comunità che presiedono. Essi le rappresentano un po' come la testa rappresenta il corpo. Il loro potere non viene dal basso ma dall'alto. Sono testimoni del deposito della fede.
La legge conciliare, poi, non è quella della maggioranza ma quella dell'unanimità. Certo, in un concilio si vota, ma questo voto è un mezzo per raggiungere l'unanimità. Così il concilio non è la somma delle voci particolari, ma la coscienza della Chiesa che ha trovato la sua espressione. L'unanimità e la comunione sono da attribuire allo Spirito Santo. La formula rituale lo dice bene: «Riuniti nello Spirito Santo». Presieduta invisibilmente da Cristo, davanti alle Sacre Scritture aperte sull'altare: ecco da dove viene l'infallibilità tradizionalmente attribuita ai concili in materia di fede e di costumi.
Questo anniversario del Vaticano II è infine un'occasione opportuna per ricordarci la trasformazione che ha generato nel modo di pregare, di celebrare, di relazionarsi con i testi fondatori. Ha permesso ai fedeli di partecipare con i sacerdoti e i vescovi alla missione di testimonianza. Ha permesso ai fedeli di esaminare i diversi campi del sapere, di lavorare al servizio della giustizia e della pace anche con persone che non condividono la loro fede. Questo concilio non è dunque un evento del passato. Esso orienta sempre il cammino della Chiesa che, come scriveva sant'Agostino, prosegue il suo pellegrinaggio tra consolazioni e tribolazioni.
In conclusione, vorrei sottolineare la capacità e la libertà che la Chiesa cattolica ha di mettersi in discussione. Poche istituzioni si sono impegnate allo stesso modo per una reale fraternità e un'autentica riconciliazione. Con che realismo e con che coraggio i vescovi hanno cercato di trovare la maniera più adeguata per raggiungere l'uomo e la donna di oggi, senza però perdere l'identità cristiana. In un mondo diviso, dove il rancore, l'odio, le guerre sono realtà che sembrano prevalere, consola udire la Chiesa cattolica affermare che: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Ho appena citato l'incipit della costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Il concilio si è autoproclamato concilio pastorale, ma è stato un concilio che ha insegnato. Non ha promulgato canoni, non ha imposto definizioni, ma ha ispirato un tipo di relazioni che, come è stato scritto, ha fatto passare la Chiesa «dal comandamento all'invito, dalla legge all'ideale, dalla minaccia alla persuasione, dalla costrizione alla coscienza, dal monologo al dialogo, dal comando al servizio, dall'esclusione all'inclusione, dall'ostilità all'amicizia, dal sospetto alla fiducia, dalla rivalità alla collaborazione» (John O'Malley, «Études», settembre 2012, p. 221).
I testi del Vaticano II offrono una grande visione per il futuro. Giovanni Paolo II lo ha affermato: «La carta dell'esistenza cristiana per il nostro tempo è il concilio Vaticano II». E il suo successore non ha esitato a paragonarlo a una «bussola che permette alla nave della Chiesa di procedere in mare aperto, in mezzo a tempeste o ad onde calme e tranquille, per navigare sicura ed arrivare alla meta».

(©L'Osservatore Romano 12 dicembre 2012)

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