Intreccio ai piedi della croce
di Gianfranco Ravasi
Se si consulta un dizionario di musica sotto la voce Stabat Mater, è facile imbattersi in lunghe liste di autori, a partire da Josquin Despres, passando attraverso quasi tutti i maggiori e i minori compositori (c'è persino Mozart, ahimè, con una partitura andata perduta, la K 33c), per approdare fino ai nostri giorni, per esempio a Penderecki. Se si ricorre, invece, a un dizionario letterario, la stessa voce ci riserva lunghi elenchi di attribuzioni che coinvolgono Papi, santi ma anche un grande poeta medievale, quello Iacopone da Todi che, a dir di molti, dovrebbe esserne il vero autore e che l'avrebbe composto al tramonto della vita, tra il 1303 e il 1306. "Se lo Stabat è veramente di Iacopone - scriveva il critico Francesco Flora - come oggi par certo, fu un suo canto di supremo riposo". Ma la disputa sull'attribuzione rimane aperta.
Se poi si andasse a compulsare qualche manuale specifico e specialistico di storia della letteratura, si scoprirebbe che l'inno - o, più accuratamente, la "sequenza" come sono indicati questi canti di uso anche liturgico - è un testo molto mobile ed elastico. Infatti le antiche redazioni a noi giunte, prima dell'attuale codificazione che è quella adottata dai musicisti, sono molteplici e oscillano tra la quarantina e il centinaio di versi.
Dopo aver fatto parte dell'antica ufficiatura del venerdì prima della Domenica della Palme e di altre celebrazioni liturgiche, la sequenza fu introdotta nella messa della Beata Vergine Addolorata (15 settembre) da Papa Benedetto XIII nel 1727, ove è rimasta anche dopo la riforma liturgica voluta dal concilio Vaticano II, sia pure solo a livello facoltativo. Ma la sua popolarità fu incrementata soprattutto dalla sua distribuzione all'interno delle varie stazioni della Via Crucis.
La scena sottesa a tutta la composizione è quella del Golgota così come è evocata dal vangelo di Giovanni: "Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: Donna, ecco tuo figlio! Poi disse al discepolo: Ecco tua madre! E da quell'ora il discepolo l'accolse con sé" (19, 25-27).
La duplice dichiarazione di Gesù crocifisso è la formula di rivelazione di una nuova maternità spirituale di Maria. Una parola solenne che svela il mistero e il significato ultimo di una persona. Giovanni, definito "discepolo che Gesù amava", rappresenta il ritratto del perfetto discepolo, un'immagine che supera i confini di quel luogo e di quel giorno tragico. Maria è interpellata col titolo "Donna", che vuole alludere alla "donna" che sta alla radice della storia umana, Eva. La prima donna era stata l'inizio e la madre dell'umanità intera; ora Maria diventa l'inizio e la madre di tutti i credenti nel Figlio suo.
È curioso notare che in quella trentina di parole che compongono l'originale greco del brano per ben cinque volte si ripete il vocabolo mêter, "madre". Maria appare ora nella sua nuova funzione materna, quella di essere la madre di tutti i fedeli, simbolo della Chiesa. La "donna" Maria, nuova Eva, sta quindi vivendo l'"ora" del suo Figlio come sua "ora": come il Cristo, soffrendo e morendo, genera la salvezza, così Maria, soffrendo e perdendo tutto, diventa madre della Chiesa. Nel profilo di Maria si intravedono i lineamenti della Chiesa che genera figli modellati sul Cristo.
(©L'Osservatore Romano 29 marzo 2013)
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