Il Signore mi chiama a "salire sul monte", a dedicarmi ancora di più alla preghiera... (Benedetto XVI, 24 febbraio 2013)
giovedì 22 novembre 2012
Il latino è morto viva il latino (Ivano Dionigi)
Virgilio, Eliot e i comunisti italiani
Il latino è morto viva il latino
di Ivano Dionigi
Come interpretare al meglio la costituzione della Pontificia Accademia della Latinità?
Come accordarne idealmente pensiero e finalità al magistero della Costituzione Apostolica Veterum sapientia di Giovanni XXIII e della Fondazione Latinitas istituita da Paolo VI? Più in generale: come contribuire a rendere utile e addirittura necessaria una lingua morta e la relativa cultura ormai da decenni rimossa, tenendo al contempo lo sguardo rivolto avanti e indietro, simul ante retroque prospicientes?
La cesura è intervenuta in tempi recenti: agli inizi degli anni Sessanta del ventesimo secolo, quando, dopo la scienza, anche la scuola e la Chiesa abbandonarono il “monoteismo” latino. Infatti, al grido «La lingua dei signori» (così titolava l'Avanti! un famoso fondo di Nenni), il Governo di centro-sinistra abolì l'obbligatorietà del latino nelle scuole medie inferiori, perché considerato «simbolo di educazione elitaria, e quindi di discriminazione sociale» (Traina); facendo pagare così un tributo tutto ideologico a una tradizione culturale fondativa.
Né le voci colte e nobili di Concetto Marchesi, Palmiro Togliatti e Paolo Bufalini -- favorevoli, come per altro già Gramsci, alla lingua di Cicerone e al suo insostituibile ruolo formativo -- valsero a evitare lo scontro tra i servatores e i novatores: scontro non di culture bensì di ignoranze, come se il latino e la classicità fossero di destra, e le scienze, il computer e l'inglese di sinistra.
Quasi in parallelo, il concilio Vaticano II decise di rinunciare in parte, nella sacra liturgia, alla lingua latina, e di adottare le lingue nazionali. Comprensibilmente quella Chiesa che si apriva al popolo di Dio e al mondo contemporaneo non poteva continuare a celebrare la comunione dei fedeli in una lingua ormai pressoché sconosciuta.
Eppure, proprio in quegli anni, esattamente il 22 febbraio del 1962, Papa Giovanni XXIII firmava e diffondeva con la Veterum sapientia un accorato elogio sia della sapienza classica sia delle due lingue: il greco e soprattutto il latino, riconosciuto come loquendi genus pressum, locuples, numerosum, maiestatis plenum et dignitatis (...) quod unice et perspicuitati conducit et gravitati (uno stile conciso, ricco, armonioso, pieno di maestà e di dignità che come nessun altro giova alla chiarezza e alla solennità). Una enciclica ricca di pensiero e di proposte, in verità non pienamente compresa e valorizzata negli anni seguenti.
Un doppio registro? Una doppia norma? Un messaggio contraddittorio tra concilio ed enciclica? Nulla di tutto ciò. Semplicemente, e del tutto coerentemente, si voleva ricordare ai pastori, al clero, ai futuri sacerdoti -- come fa ora il motu proprio di Benedetto XVI -- che la conoscenza della lingua latina e della cultura di Roma costituiscono un patrimonio irrinunciabile, perché in quella lingua e in quella cultura si ritrovano e si concentrano tre proprietà costitutive della fede: l'eredità, l'universalità, l'immutabilità. Quid nunc? Non possiamo non chiederci oggi: latino per chi? Latino perché? Per parlare bene. Ne era convinto anche un pensatore come Alexis de Tocqueville, il quale pur schierato dalla parte del sapere scientifico e tecnologico, riconosceva agli autori greci e latini una cura formale esemplare («nulla nelle loro opere appare scritto in fretta o a caso»).
Noi oggi scontiamo una vera e propria entropia linguistica: una condizione di disordine in cui le nostre parole, ridotte a vocaboli, smarriscono il loro volto e perdono la loro forza. Nel periodo del maximum della comunicazione sperimentiamo il minimum della comprensione. C'è una lingua neutra oggi, una sorta di koinè diafana e asettica che ci fa esclamare con Sallustio: vera vocabula rerum amisimus («abbiamo perduto il significato vero delle parole»).
C'è una ricerca ossessiva delle radici e dell'identità che non giova, propria dei sopravvissuti. Penso a certe Sodalitates che sfidando il ridicolo e nuocendo alla causa pretendono di recuperare anacronisticamente e sterilmente il latino come lingua viva. No; io sto con Eliot, grande ammiratore della classicità e in particolare della lingua di Virgilio, il quale amava dire che il latino è lingua morta, irrimediabilmente morta e fortunatamente morta, cosicché noi possiamo spartircene l'eredità; ma un'eredità da conquistare, non già un feticcio da ossequiare («Ciò che hai ereditato dai padri, conquistalo per possederlo», Goethe). Qui sta la sfida consegnata all'iniziativa e all'intelligenza di questa Accademia: individuare i modi realistici ed efficaci per capitalizzare questa straordinaria eredità linguistica e culturale.
C'è una ricerca delle radici e dell'identità che piace e che giova: l'identità del lessico fondamentale dell'Europa, che ha sempre parlato latino; dei lasciti culturali specifici (il pensiero filosofico, politico, giuridico, ma anche tecnico e scientifico); e soprattutto dell'eredità plurale, vale a dire l'acquisizione di una forma mentale aperta a tutte le possibili alternative, perché il mondo classico è abitato non da un pensiero unico e limitante, bensì dalla pluralità delle concezioni rivali del mondo. I classici, dunque, come testimoni di identità plurali o -- per dirla con Canetti -- come «custodi delle metamorfosi»; dei labirinti delle lingue e culture -- ebraica, greca e latina -- che educano al linguaggio della diversità, che alla cultura lineare e impoverente dell'aut aut sostituiscono la cultura dell'et et, vale a dire della memoria e dell'inclusione. Un'eredità, questa, che ci rende da un lato più disincantati e più saldi, dall'altro più ricchi e più aperti di fronte ai nuovi interlocutori che già da diversi lustri caratterizzano la scena del mondo: la globalizzazione col suo profeta internet, e le culture altre rispetto a quelle di Roma, Gerusalemme e Atene. La necessità e la centralità del latino si impongono perché Roma e la sua lingua sono state per noi il tramite per conoscere Atene e Gerusalemme.
Forti del patrimonio della tradizione (e delle tradizioni), i classici contrastano coi conformismi del presente e con le mode del momento (modo). Di fronte all'imperante sincronia e dittatura del presente, proprio la lingua latina ci può soccorrere nel recupero di un valore primario e costitutivo dell'uomo: il valore del tempo: il suo ordo verborum si tende e ci lascia sospesi fino a quando il prima, il durante e il poi non si ricompongono. Occorrerà adoperarsi perché ci siano ancora e sempre grammatici in grado di capire e tramandare i testi classici a favore dei populi. E questa trasmissione, come ogni scienza, può nascere solo -- con un forte senso di responsabilità comunitaria -- dalla «lampadoforia», e non dalla «tremula fiaccola del singolo» (Bacone, De sapientia veterum).
(©L'Osservatore Romano 22 novembre 2012)
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3 commenti:
Fenomenale errore nell'impostazione culturale del professor Dionigi: Latino "lingua morta", di cui "spartirsi l'eredità"; i classici, addirittura, "custodi delle metamorfosi", cioè antichi panteisti e relativisti.
La mia proposta (che mi pare rispondente alla realtà)? Roma Aeterna, cioè sempre vivissima e imperitura, grazie al fatto di essere divenuta cristiana; i classici come venerabili posatori di pietre solide nei campi del pensiero e dell'azione
Le frasi che lui riporta sono di Eliot e Canetti,non farina del suo sacco,d'accordissimo che l'immenso patrimonio lasciatoci dai Romani con il latino debba essere assolutamente conservato;faccio un piccolo esempio,il Corano,libro 'rivelato' a Maometto e da lui poi raccontato (Maometto era analfabeta)è scritto in arabo parsi antichissimo,del VII /VIII secolo d.C. e viene imparato a memoria così com'è anche da chi non conosce neppure l'arabo moderno,meditiamoci su....GR2
Ma il punto è, caro GR2: Roma "imperiale", datrice del Diritto alle genti - Roma "quae Urbem fecit quod prius Orbis erat", per la cui cittadinanza si faceva l'impossibile, è morta o esiste ancora?
Questo, in fondo, è il tema dell' "In hoc Signo vinces", del quale abbiamo appena celebrato i 1700 anni.
Il carattere sacro della città di Roma, ben presente nel Concordato del 1929, è stato "dimenticato" nel Concordato degli anni '80 fra la Santa Sede e l'Italia craxiana.
P.S. Le "voci colte e nobili" di comunisti citate dal prof. Dionigi sono voci di scomunicati.
Forse è la prima volta che l' "Osservatore" esalta direttamente degli scomunicati (indirettamente, sono almeno due anni che sta facendo il panegirico dei massoni piemontesi del XIX secolo)
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