Il Natale dell'Anno della fede e il messaggio sempre nuovo del presepe di Greccio, dall'affresco di Giotto ad Assisi a oggi
Quando il potere del simbolo si nasconde dietro realtà ordinarie
di Timothy Verdon
Il Natale di questo Anno della fede, che è anche un anno di acuta crisi economica, vedrà nelle chiese molti che in altri periodi non frequentano. E in chiesa ritroveranno il segno che, dal XIII secolo fino a oggi, comunica il significato del Natale, il presepe, e davanti a esso probabilmente anche un gruppo di fedeli in ammirazione, magari con bambini. Non si tratta di due esperienze, poi, ma di una sola: la commossa presenza della gente è infatti parte integrante del segno, e la nascita di Gesù in una carne umana significa proprio questo: il Dio che nell'Antico Testamento l'uomo non poteva vedere e vivere, ora nel Verbo incarnato e nato da Maria si offre alla vista di tutti. Gesù adulto dirà chiaramente: «Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (Giovanni, 6, 40). A Natale, perciò, vedendo il Figlio e quindi vedendo Dio (perché Gesù ha detto anche: «Chi ha visto me ha visto il Padre», Giovanni, 14, 9), si ha l'impressione di una salvezza avviata, e davanti all'immagine della vita nascente perfino chi non crede sente l'attrazione della “vita eterna”.
Può sembrare strano attribuire tanta importanza ai presepi, che normalmente sono opere modeste, non grandi capolavori. Anche i presepi napoletani, per tutta la loro fantasia e bellezza, nascono dall'artigianato e ne conservano il carattere popolare. Appartengono alla categoria, da alcuni disprezzata e da quasi tutti sottovalutata, della “arte devota”, ma già questo termine suggerisce una chiave di lettura meno riduttiva, perché, insieme alla liturgia, è stata proprio la devozione a generare l'intero patrimonio d'arte cristiana: la religiosità delle persone «inginocchiate di fronte agli altari e alle immagini dei santi» di cui parlava Hegel nella sua Estetica. Basiliche, cattedrali e chiese sono sorte intorno alle reliquie di eroi della fede amati e venerati dal popolo: San Pietro in Vaticano, San Marco a Venezia, San Gennaro a Napoli e San Francesco ad Assisi sono esempi celebri.
Proprio le reliquie offrono una chiave di lettura al fenomeno della devozione, basato sul contatto fisico o almeno psicologico con la storia della salvezza. A differenza della liturgia, che opera mediante segni, la devozione permette di toccare con mano qualcosa tramandata dal passato ma che vive ancora nell'ininterrotta tradizione del popolo: il sangue di san Gennaro, per esempio, che si liquefa ogni anno nella festa del vescovo e martire partenopeo. Elementi apotropaici, leggendari e folclorisitici s'intrecciano col desiderio di vedere e toccare, ma la Chiesa ha permesso e promosso le varie forme della devozione nello spirito in cui Cristo risorto, vedendo l'incredulità degli apostoli a cui apparve la sera di Pasqua, disse loro: «Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete ch'io ho» (Luca, 24, 39).
Nell'assenza di reliquie primarie, possono bastare testimonianze di seconda mano o addirittura confezionate apposta per soddisfare l'esigenza di contatto. Il Volto Santo di Lucca, per esempio, ha attratto i fedeli perché ritenuto un ritratto di Cristo eseguito da uno dei due uomini che, secondo il Vangelo, l'hanno deposto e sepolto, Nicodemo. E Francesco d'Assisi, trovandosi in un luogo privo di reliquie importanti, Greccio, non esitò d'inventare il presepe per accrescere il fervore del popolo; forma devozionale, questa, che -- nell'incongruità materica dei suoi componenti -- permette di “toccare” l'incongruo mistero di un Dio che s'è fatto uomo, anzi bambino, figlio di povera gente.
Un affresco della basilica d'Assisi raffigurante quest'evento, Natale a Greccio, può suggerire vari aspetti tipici della devozione cristiana. Il primo è l'atmosfera affettiva che circonda il gesto compiuto da Francesco: il santo e gli astanti si commuovono, e proprio questa spontanea reazione emotiva figura tra gli obiettivi centrali della vita devota. Notiamo poi l'inconsueta commistione di persone: col prete all'altare e coi frati che accompagnano Francesco ci sono laici e perfino donne; la devozione infatti è più “democratica” della liturgia, perché coinvolge tutti a uguale titolo, in base al comune denominatore affettivo.
La devozione si differenzia dalla liturgia ufficiale ma non si oppone a essa. Anzi, nella storia cristiana come nell'affresco, la vita devota si svolge vicino all'altare, offrendosi come para-liturgia che colora e concretizza il senso della Messa fino al punto che, nell'affresco di Assisi, anche il sacerdote contempla con stupore il bambino che Francesco pone nella mangiatoia. Inserendosi nel luogo di culto, le pratiche devote interagiscono poi con le altre arti liturgiche. Nell'affresco, per esempio, l'umile mangiatoia di legno è collocata tra il ciborio monumentale che sovrasta l'altare e l'ambone di marmo, così che il piccolo dramma sacro inventato dal Poverello attinge alla solennità della liturgia con le sue letture accompagnate dall'omelia. Inscenato al piede del leggio usato per i libri musicali, questo dramma viene arricchito dall'emozione del canto rituale, nonché dal senso teologico comunicato dalla croce vista da tergo sul tramezzo, che getta sull'intero episodio una luce pasquale.
Infatti dal periodo di san Francesco in avanti, le arti associate alla liturgia tradiscono l'impatto della devozione popolare: predicazione, dramma sacro, poesia, pittura e scultura fanno appello ai sentimenti con nuova forza ed eloquenza. L'elemento comune è un realismo di stile che, come la devozione stessa, ha l'evidente funzione di stabilire un contatto; nell'affresco della basilica d'Assisi, per esempio, la spazialità prospettica, l'accurata descrizione delle cose, la tridimensionalità delle persone raffigurate e la leggibilità delle loro emozioni permettono ai pellegrini assisiati di tutte le epoche di sentirsi presenti allo stupore e alla gioia dell'evento celebrato da Francesco nel 1223: l'intensa emozione di Francesco e di coloro che, in quella notte di fine dicembre, assistettero a un momento irripetibile. Sebbene trasponga il gaudio e la letizia dalla grotta dove avvenne l'evento nel presbiterio di una chiesa, l'affresco realizza perfettamente il “programma” del Poverello, di rinfocolare la devozione all'umanità del Dio incarnato. «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme» dice Francesco nella Vita prima di Tommaso da Celano «e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l'asinello».
Come l'autore dell'affresco, tradizionalmente ritenuto Giotto, fa vedere poi, il primo a commuoversi davanti alla scena così concepita è Francesco stesso: «L'uomo di Dio stava davanti alla mangiatoia, ricolmo di pietà, cosparso di lacrime, traboccante di gioia», dirà Bonaventura. Anche il sacerdote all'altare si gira per contemplare il gesto di Francesco, e «assapora una consolazione mai gustata prima», nota il Celano. Tutti e due i biografi, poi, descrivono come Francesco -- rivestito dei paramenti diaconali, perché era diacono -- cantasse il Vangelo, e come quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisse tutti in desideri di cielo.
In questo affresco, la persona umana, gli ambienti della sua vita e le cose di cui si serve vengono descritte con un realismo non visto nell'arte europea da mille anni. L'artista riproduce, con straordinaria fedeltà descrittiva e perfino ottica, i componenti caratteristici dell'area liturgica di una chiesa conventuale dell'epoca: il tramezzo su cui poggia il pulpito; una tipica croce dipinta del periodo vista da dietro con il meccanismo di sostegno che l'inclina verso la navata; il badalone o leggìo che serve alla schola cantorum, con perfino l'elenco dei canti appeso alla base; il bel ciborio sopra l'altare, che evoca quelli fatti a Roma da Arnolfo di Cambio pochi anni prima.
Se consideriamo insieme il soggetto e lo stile, possiamo dire che la nascita di Dio nel corpo, vissuto intensamente da Francesco e dai suoi seguaci, ha investito d'importanza tutto ciò che serve al corpo; e, come davanti al presepio di Greccio Francesco era stato «vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile», così settanta anni dopo il pittore dell'affresco vibra di emozione davanti alle cose umili che circondavano il gesto del Poverello, facendocele vedere «con gli occhi del corpo» fino al punto di organizzare gli oggetti in profondità con l'utilizzo precoce della prospettiva, in questa costruzione spaziale tra le più complesse tentate sin dal venir meno della pittura romana.
Non mancano riferimenti simbolici: il bambino è posto nella mangiatoia accanto all'altare e sotto la grande croce, per simboleggiare che già nell'infanzia Cristo è votato a una morte sacrificale: «Entrando nel mondo, Cristo dice [al Padre] “tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato” […e] noi siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo» (Ebrei, 10, 5-10).
Ma il potere del simbolo si nasconde ormai in cose ordinarie, come in Cristo il potere della divinità era “velato” dalla sua umanità. È questo, in fondo, il senso di ogni presepe.
(©L'Osservatore Romano 29 dicembre 2012)
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