giovedì 7 marzo 2013

Una primavera romana. Cronache dalla sede vacante del 2005 (De Prada)

Su segnalazione di Laura leggiamo:

Cronache dalla sede vacante del 2005

Una primavera romana

Pubblichiamo in una nostra traduzione un articolo apparso il 24 febbraio scorso su «XL Semanal», il supplemento del sabato del quotidiano spagnolo «Abc». Le cronache a cui accenna l'autore sono state in parte raccolte nel suo libro La nueva tiranía (Madrid, Libros Libres, 2009).

di Juan Manuel de Prada

È stata senza dubbio la mia esperienza giornalistica più luminosa; e anche una delle esperienze più determinanti della mia vita. Nell'aprile 2005, quasi otto anni fa, il giornale «Abc» -- diretto all'epoca da Ignacio Camacho, al quale non sarò mai abbastanza grato -- mi inviò a Roma, con la missione di scrivere una cronaca quotidiana, dalla morte di Giovanni Paolo II alla messa di inizio pontificato del suo successore, Benedetto XVI. Roma, in quei giorni che commossero il mondo, era invasa da pellegrini venuti dai luoghi più remoti della terra che facevano la fila, per ore e giorni, a piazza San Pietro, per onorare la salma di Giovanni Paolo II, esposta nella basilica di San Pietro, prima delle esequie che avrebbe presieduto colui che era allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e decano del collegio cardinalizio, il cardinale Ratzinger.
Quella messa di commiato, prima che il corpo di Giovanni Paolo II fosse sepolto nelle Grotte della basilica, fu forse il momento più commovente e gioioso di quella primavera romana. Centinaia di migliaia di pellegrini invadevano piazza San Pietro, via della Conciliazione, giungendo fino ai ponti sul Tevere, i cui parapetti si erano riempiti di candele durante la veglia della notte precedente. Era una mattina premonitrice di pioggia, e sul feretro che conservava le spoglie di quel sofferente titano della fede riposava un Vangelo aperto, i cui fogli il vento iniziò a frustare, scompaginando le citazioni. La moltitudine riunita innalzava bandiere, un bosco di bandiere che celava l'orizzonte; e le richieste di «santo subito!» interrompevano di tanto in tanto l'omelia di Ratzinger, mentre gli applausi rimbalzavano sul colonnato della piazza, come un battito d'ali di colombe orfane.
Sono stato molto felice in quei giorni a Roma, dove ero giunto senza conoscere nessuno e da dove tornai con alcune amicizie imperiture. Tra di esse, quella con un esperto di storia del papato e profondo conoscitore delle vicende vaticane. Era un conversatore instancabile, un erudito brillante e traboccante ospitalità, che faceva della sua cultura un'avventura sempre nuova: passeggiavamo molto insieme, per strade inondate di strepito e di fervore, e cenavamo in ristoranti popolari, lontani dalla marea incessante di turisti e di pellegrini, dove mi portava con la sua automobile scarcassata, che guidava con l'allegra temerarietà di un saggio sbadato.
Imparai molto da lui; e tutto quello che raccontavo nelle mie cronache era vagliato dalla sua visione lungimirante degli eventi; fu lui a dirmi di dimenticarmi della lotteria dei “papabili” e di concentrarmi sulla figura di Ratzinger; fu lui il mio cicerone in mezzo al tumulto e alla confusione; e grazie a lui conobbi persone interessantissime, tra le quali non mi sentii mai forestiero.
Le mie cronache furono contagiate da una febbre cordiale ed esultante che forse la mia scrittura non aveva mai avuto prima; e che forse non ha avuto dopo. In esse non parlavo troppo dei noti intrighi vaticani, e non facevo elucubrazioni sul risultato del conclave, ma raccontavo le storie della gente comune in cui m'imbattevo per strada, cercando di trasmettere al lettore le vibrazioni di quei giorni straordinari. Quasi senza volerlo, ottenni alcune primizie per le quali qualsiasi inviato speciale avrebbe commesso una follia -- la più importante di tutte fu un'intervista con Joaquín Navarro Valls, l'unica che l'allora portavoce del Vaticano concesse in quei giorni alla stampa scritta -- ma godetti soprattutto di un giornalismo “di ambiente”, un giornalismo molto coscientemente letterario, attento a catturare la metafora più che la notizia.
E in quelle settimane le metafore mi venivano leggere come gazzelle, insonni come lucciole, incandescenti e candide come un amore dell'adolescenza. Credo che fu una di quelle rare occasioni in cui un lavoro su commissione si trasforma in una forma di pienezza vitale; e credo che i lettori di «Abc» l'intesero proprio così: ancora oggi, a tanti anni di distanza, ci sono persone che mi ricordano quelle cronache, nelle quali è racchiuso -- come nell'ambra -- un entusiasmo per il mestiere della scrittura che mi faceva esplodere le cuciture del cuore.
Qualcosa di me restò per sempre in quella primavera romana. Passeranno gli anni, come cortei funebri, e mi basterà ricordare quei giorni per recuperare la gioia della gioventù.

(©L'Osservatore Romano 8 marzo 2013)

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