domenica 10 marzo 2013

La rinuncia di Benedetto XVI al Pontificato. Come un'ultima enciclica (Femminis)

La rinuncia di Benedetto XVI al pontificato

Come un'ultima enciclica 

Pubblichiamo l'editoriale del numero di marzo del mensile dei gesuiti italiani «Popoli», scritto dal suo direttore.

di Stefano Femminis

Il breve messaggio con cui l'11 febbraio Papa Benedetto XVI ha sorpreso il mondo e cambiato la storia della Chiesa, annunciando la sua decisione di «rinunciare al ministero petrino», si caratterizza -- oltre che per lo stile sobrio tipico del Pontefice -- per una densità di contenuti e di sfumature su cui certamente occorrerà riflettere a lungo. A caldo, mentre il numero di «Popoli» che avete tra le mani sta per andare in stampa, a noi piace vedere questo messaggio come la sua ultima enciclica, ovvero -- letteralmente -- come una “lettera circolare” inviata a tutti, credenti e non.
Tre passaggi ci sembrano particolarmente significativi. Il Papa confida di avere «ripetutamente esaminato la (sua) coscienza davanti a Dio» e di essere «pervenuto a una certezza». Si moltiplicano commenti e confronti, talvolta polemici, sulla diversa scelta compiuta da Wojtyła e da Ratzinger di fronte al venire meno della salute fisica.
Quasi che, davanti al bivio che entrambi hanno incontrato, esista un'unica scelta giusta.
Ebbene, Papa Benedetto rimette al centro il primato della coscienza. Ci dice che non è anzitutto l'obbedienza a fattori esterni, non è una prassi, non sono -- in ultima analisi -- le tradizioni, pur millenarie, a dover guidare un pontefice, così come qualunque altro cristiano, ma la voce della propria coscienza, rettamente orientata da un'intensa frequentazione di Dio nella preghiera. Non solo, il Papa testimonia che dall'ascolto di questa voce nasce una «certezza». 
Si tratta di un messaggio di speranza che dovrebbe scuotere il mondo: non è infatti proprio lo smarrimento di ogni certezza, il grigiore indistinto in cui tutto si confonde, il vero dramma della società contemporanea?
Il secondo passaggio chiave ci pare il riferimento al «mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti». È, insieme, una lezione e un richiamo.
Una lezione, definitiva, che lascerà senza argomenti chi accusa la Chiesa e i suoi pastori di essere sempre e comunque fuori dal tempo, immobili, sordi alle richieste di cambiamento che arrivano dal contesto. Ma è anche un richiamo a quella parte di Chiesa, che pure esiste, la quale vede il cambiamento con timore e sospetto. In questo senso, possiamo dire che la clamorosa decisione di Benedetto XVI si iscrive pienamente nell'eredità conciliare, se è vero che al cuore del concilio Vaticano II vi fu la «riconciliazione» tra Chiesa e mondo.
Infine, la richiesta finale del Papa: «Chiedo perdono per tutti i miei difetti».
Anche queste parole spazzano via fiumi di inchiostro sulla presunta freddezza e austerità del Papa tedesco. Ma soprattutto illuminano il senso autentico che dovrebbe animare ogni esercizio dell'autorità, non solo religiosa. Pensiamo ai discorsi di addio dei “grandi della Terra”, solitamente focalizzati sulla rivendicazione dei successi ottenuti ed eventualmente sulla autogiustificazione dei propri fallimenti.
Qui, nel momento in cui sa di scrivere un messaggio che farà il giro del mondo, l'uomo che pure ebbe qualche dubbio sulla richiesta di perdono per gli errori della Chiesa voluta da Giovanni Paolo II nel giubileo non esita a riconoscere i propri, di difetti, non pensa a «tutelare» il proprio lavoro, non ne approfitta per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Ci saluta nell'essenzialità estrema, in una nudità interiore che colpisce e commuove.

(©L'Osservatore Romano 10 marzo 2013)

Mah...
R.

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