domenica 6 gennaio 2013

Abbiamo perso la comprensione del senso morale. «La Croix» a colloquio con il gran rabbino di Francia Gilles Bernheim (De Sauto)

La necessità di un dialogo autentico

Pubblichiamo buona parte di un'intervista al gran rabbino di Francia Gilles Bernheim che è accessibile per intero sul sito del quotidiano francese «La Croix» (www.la-croix.com). L'ultima parte affronta la questione del dialogo tra ebrei e cristiani. Sulla base della fede in Gesù Cristo -- sostiene Gilles Bernheim, sottolineando la necessità di un confronto autentico e franco -- il cristiano può accettare che «il popolo ebraico è sempre chiamato a compiere una missione, affidatagli da Dio, e che l'ebraismo è una risposta autentica a questa chiamata». Il rabbino esorta inoltre l'ebraismo a investire energie più creative in uno sforzo teologico. Senza rinunciare tuttavia a orientare la propria «immaginazione religiosa verso le tracce che la presenza divina lascia quando attraversa la storia umana». Per un simile compito -- conclude -- la Halakhah (ossia il complesso normativo della tradizione ebraica) è una guida sicura.

(©L'Osservatore Romano 6 gennaio 2013)


«La Croix» a colloquio con il gran rabbino di Francia Gilles Bernheim

Abbiamo perso la comprensione del senso morale


di Martine de Sauto


«Abbiamo perso la comprensione di quello che è il senso morale». Il gran rabbino di Francia ama prendere la parola per esprimere una posizione che illumina i dibattiti sociali e fa riflettere, come è accaduto di recente sulla questione «matrimonio per tutti». Per «La Croix» affronta i temi principali che preoccupano la società contemporanea e ricorda il ruolo delle religioni.


Lei dice spesso che la grandezza di una religione sta nella sua capacità di far riflettere. L'impegno intellettuale è per lei un dovere morale? L'ebraismo è un'esigenza etica?


Prima di rispondere affermativamente, mi permetta di dire che è il concetto stesso di etica a essere diventato incoerente. Noi abbiamo ampiamente perso la comprensione, insieme teorica e pratica, di quello che è il senso morale. Perché? Perché l'effetto corrosivo del dominio del mercato non agisce solo sullo scenario sociale. Viene eroso anche il nostro vocabolario morale, che è indubbiamente la risorsa più importante di cui disponiamo per pensare il nostro futuro. Sempre più, in questa immensa società di mercato che è diventato il nostro pianeta, siamo giunti a pensare solo in termini di efficacia (come ottenere ciò che vogliamo?) e di terapia (come non sentirsi frustrati rispetto a ciò che vogliamo?). 

Efficacia e terapia, a volte addirittura infiltrate dentro le religioni monoteistiche, sono più imparentate con la mentalità del marketing -- la stimolazione e l'appagamento del desiderio -- che con la moralità, ossia con ciò che noi dovremmo desiderare. Nell'ambito pubblico, i due termini che dominano il discorso contemporaneo sono l'autonomia e i diritti, che si conformano con lo spirito del mercato, privilegiando la scelta e scartando l'ipotesi secondo la quale esisterebbero dei fondamenti oggettivi che consentono di effettuare una scelta piuttosto che un'altra. È diventato così molto difficile riflettere collettivamente su quelli che dovrebbero essere i nostri orientamenti, peraltro i più decisivi che si siano mai presentati all'umanità, che riguardino sia l'ambiente, la politica, l'economia, sia l'idea stessa di famiglia o di matrimonio, la vita e la morte. Come parlare di un bene che trascende il nostro appagamento particolare e immediato dal momento che abbiamo perso il senso di ciò che sono il dovere, l'obbligo e il ritegno e non ci resta altro che i nostri desideri che esigono il loro “dovuto”? A parte questa riserva, l'ebraismo è un'esigenza etica e l'impegno intellettuale è un dovere morale.

La sua visione del mondo è guidata dalla Bibbia e dai commenti rabbinici. Perché lei ha scelto, nel suo saggio sul matrimonio omosessuale, di non menzionare i divieti sull'omosessualità contenuti nella Bibbia?


La ragione è molto semplice: la posta in gioco non è qui l'omosessualità, ma il rischio irreversibile di una confusione delle genealogie, sostituendo la parentalità alla paternità e alla maternità. Ma anche di una confusione dello status del bambino che passa da quello di soggetto a quello di oggetto al quale ognuno avrebbe “diritto”.


Qual è secondo lei la vera posta in gioco sociale che si nasconde dietro la rivendicazione del matrimonio per tutti?


Un comportamento, prima emarginato, non vuole più essere tollerato ma legittimato, il che è ben diverso. Da qui i nuovi manuali scolastici che esortano il bambino non solo a rispettare gli omosessuali come persone, ma anche a riconoscere la fondatezza del loro comportamento. L'esigenza di legittimazione generale sembra tradurre a maggior ragione una permissività generale, quindi la rimozione di qualsiasi giudizio. Da questo momento in poi la presunta legittimazione non è più tale nel quadro dell'irrilevanza delle scelte: è piuttosto tutta l'antica legittimità del matrimonio, quale istituzione riconosciuta dalla società come buona per il suo equilibrio e la sua perennità, a venire cancellata. Oggi la società oscilla stranamente tra ciò che è violentemente escluso, come i riferimenti alla nozione di sforzo su se stessi, all'esistenza di gerarchie morali, alle tradizioni e alle convenienze, e una permissività molto forte che deriva dalla mancanza di coraggio, dall'incertezza o dall'indifferenza.


Il modo di morire e la visione della morte sono profondamente cambiati. Cosa occorrerebbe per far sì che ognuno possa morire in pace e con dignità?


In un momento in cui il dibattito sulla fine della vita è in corso in Francia, dove un movimento importante si dichiara a favore di una morte lucida, dignitosa, di cui si è il soggetto, si pensa troppo spesso che l'unico modo per strappare la morte alla malattia o ai medici e per farla propria sia di chiedere l'atto che uccide, l'eutanasia. Si reclama il “diritto di morire” esigendo da una terza persona che ci dia la morte se noi lo decidiamo, senza alcuna consapevolezza di ciò che tale richiesta rappresenta per questa persona. Ma c'è un modo completamente diverso di essere soggetto, che consiste nell'essere lucidi, responsabili, coscienti. Preparare la propria morte, avere il coraggio d'interpellare i medici riguardo alle proprie paure, lasciare a quelli che resteranno una parola di vita, una parola di benedizione che li aiuti a vivere senza di noi. E poi è difficile morire con dignità, quando si è stretti in una cospirazione di silenzio, quando le persone a noi più vicine, angosciate, assistono impotenti e mute alla nostra lenta scomparsa. Quando non possono o non vogliono accompagnarci. Come riuscire a stare in pace con se stessi e con gli altri, dire addio, trasmettere qualcosa di sé e della propria esperienza di vita, se tutti fuggono o si comportano come se la morte non fosse vicina? Il modo in cui noi lasciamo questo mondo dipende tanto dalla maniera in cui abbiamo vissuto quanto dall'atteggiamento di coloro che ci circondano.


La crisi economica e finanziaria ci pone di fronte a sfide molto grandi. Cosa ne pensa lei?


Le democrazie liberali occidentali sono mal equipaggiate per farsi carico dei problemi dei più indigenti tra le vittime della crisi. Non perché non si preoccupano della povertà, ma perché hanno adottato meccanismi che emarginano le considerazioni morali. Per questo le loro politiche sociali diventano sempre più tecnocratiche e gestionali. I Governi esitano sempre più a far riferimento a una nozione di bene perché l'idea di una buona condivisione e di una regola di condotta non trova più i propri fondamenti morali e giuridici. Sembra loro che la cosa migliore che si possa fare sia di offrire agli individui più libertà possibile affinché siano in grado di compiere le proprie scelte. In tale ottica lo strumento più adatto è il libero mercato, dove in effetti possiamo adottare lo stile di vita che ci si addice per esempio in quest'anno, o in questo mese. Al di là di offrire la possibilità di fare ciò che ci piace, limitatamente a quanto possiamo pagare, la politica e l'economia odierne non hanno un granché da dire sulla condizione umana. Abbiamo bisogno di ritrovare una tradizione più antica che parla di solidarietà umana, di giustizia e della dignità inalienabile delle esistenze individuali.


All'inizio di questo nuovo anno, quali sono le questioni che la preoccupano maggiormente?


In questo tempo di scontro tra civiltà, il punto è sapere se le religioni sono capaci di diventare una forza di pace piuttosto che una fonte di conflitti. La risposta dipende in gran misura dal posto che le diverse credenze e culture attribuiscono all'“altro”, a chi non ci somiglia, a colui la cui appartenenza, il cui colore e il cui credo differiscono dai nostri. Cosa vediamo in lui? Una minaccia per le nostre credenze e il nostro stile di vita, oppure un arricchimento per l'eredità collettiva dell'umanità? Al termine della sua vita, Mosè, che aveva liberato gli ebrei dalla schiavitù e li aveva condotti alle soglie della terra promessa, ha riunito il suo popolo e gli ha proposto questa scelta decisiva: «io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza». È questa l'alternativa che l'umanità ha oggi di fronte. Ricascheremo fino alla fine negli odi del passato? Oppure sapremo scegliere un'altra via per amore dei bambini del mondo e per il loro futuro? Mentre le nostre capacità di distruzione aumentano, la generosità della nostra immaginazione deve a sua volta crescere. Prego affinché molte voci provenienti da tutti i mondi religiosi facciano eco a tale aspirazione.


(©L'Osservatore Romano 6 gennaio 2013)

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