giovedì 10 gennaio 2013

Come il Vaticano II è presente oggi ed è aperto al domani (Justo Mullor García)

Come il Vaticano II è presente oggi ed è aperto al domani

Un'iniezione nelle vene dell'umanità

di Justo Mullor García

Il Vaticano II non è una realtà passata. Non ho mai capito come alcuni abbiano osato suggerire un Vaticano III per completarlo. Il Vaticano II, quando sarà passato il “tempo delle ipotesi” -- alcune delle quali insolite -- non sarà un “concilio di ieri”, ma un concilio ancora presente e aperto a un domani che non è possibile predire con esattezza. Basterebbe tener presente la crisi vocazionale che l'ha seguito in determinate diocesi e congregazioni religiose per “immaginare” quale possa essere il futuro di certi settori ecclesiali.
Dalle parole di Giovanni XXIII risulta particolarmente chiaro che quello che il sinodo universale da lui proposto voleva offrire al mondo era una luce per uscire dalla confusione e dall'angoscia che si vivevano allora e che in buona parte si vivono ancora oggi. Pensiamo a quanto i giornali annunciano quotidianamente: tanti Paesi in guerra e una produzione parallela di armamenti che non smette di crescere e d'invitare a nuovi scontri, politiche umane che fomentano più l'egoismo della fraternità, campagne attentamente orchestrate per la creazione di famiglie artificiali, offerte ai giovani di nuove droghe e di nuovi piaceri che li allontanano da una ricca e feconda creatività. Realtà queste lontane dalle “realtà spirituali” indicate da Giovanni XXIII.
Il concilio costituì per me, come per tanti altri, una grazia molto particolare e tangibile. Dopo aver concluso gli studi alla Gregoriana e alla Pontificia Accademia Ecclesiastica, il mio primo incarico al servizio della Santa Sede fu quello di lavorare nella sezione di lingua spagnola della Segreteria di Stato alle dipendenze di due prelati eccezionali: monsignor Angelo Dell'Acqua e monsignor Antonio Samoré. Il primo era stato segretario di monsignor Angelo Giuseppe Roncalli quando questi era nunzio in Turchia. Il secondo -- ex nunzio in Colombia e sottosegretario di Stato per le Questioni internazionali -- mi aveva ordinato sacerdote cinque anni prima che il concilio fosse convocato.
Fortunatamente, in entrambi i prelati trovai un'eco viva di quanto avevo imparato da altri maestri nella mia vita universitaria: a metà degli anni Cinquanta erano molti i laici e gli ecclesiastici che, sia in Spagna sia a Roma, senza parlare proprio di un concilio, si aspettavano dalla Chiesa gesti apertamente riformatori e più vicini al Vangelo di certe vecchie tradizioni storiche e sociali.
L'auspicio del nuovo e quasi inatteso successore di san Pietro -- eravamo nel settembre 1958 -- per me era proprio ciò che avevo trovato nei miei vecchi maestri e nei miei primi superiori nella Segreteria di Stato: il desiderio di una Chiesa purificata da tradizioni e da poteri marcatamente temporali. Il potere mondano è stato sempre una seria tentazione per quanti sono chiamati a preoccuparsi prioritariamente dello spirito. Non è la carne la tentazione più grande. La tentazione più grande è sempre l'orgoglio: «Sarete come dei», disse l'astuto serpente ai nostri progenitori.
Per questo provai immensa gioia quando monsignor Dell'Acqua, dopo aver appreso la grande novità dell'annuncio del concilio, e vedendomi molto interessato a quell'inatteso e grande evento, giunto il momento, mi autorizzò a spostarmi nella sala conciliare, a condizione che concludessi i lavori quotidiani nel mio ufficio. «Lì, caro don Justo, imparerai molte cose, sempre interessanti per oggi e anche per domani».
Nell'ambito conciliare potei constatare che non sempre era del tutto esatto dividere i Padri in conservatori e liberali. Il nuovo Papa, nel convocare un concilio ecumenico in pieno XX secolo aveva utilizzato queste parole: «la Chiesa vede la comunità umana gravemente turbata aspirare ad un totale rinnovamento. E mentre l'umanità si avvia verso un nuovo ordine di cose, compiti vastissimi sovrastano la Chiesa, come sappiamo avvenuto in ogni più tragica situazione. Questo si richiede ora alla Chiesa: di immettere l'energia perenne, vivificante, divina del Vangelo nelle vene di quella che è oggi la comunità umana». E aggiungeva in concreto la ragione del concilio nella seconda parte degli anni Sessanta: «la comunità umana (...) si esalta delle sue conquiste nel campo della tecnica e delle scienze, ma subisce le conseguenze di un ordine temporale che taluni hanno tentato di riorganizzare prescindendo da Dio. Per cui constatiamo che gli uomini del nostro tempo non sono progrediti nei beni dell'animo di pari passo come nei beni materiali» (Humanae salutis reparator, n. 2).
Giovanni XXIII non era solo il “Papa buono”, era anche un Papa sagace e un osservatore attento che conosceva profondamente il mondo in cui viveva. Le sue magistrali parole coincisero per me con altre parole, non meno magistrali e lungimiranti, dell'allora arcivescovo di Milano, il cardinale Montini. Le parole di Montini furono, secondo il suo stile, profonde e abilissime, e mostrarono orizzonti molto ampi ancor prima che il concilio fosse immaginato da Papa Roncalli. L'allora arcivescovo di Milano giunse addirittura a chiedersi in pubblico se la diplomazia pontificia alla quale mi preparavo a quel tempo non fosse altro che una reliquia del passato. Si chiese persino se, con la caduta effettiva del potere temporale dei Papi, essa non fosse caduta in disuso.
La risposta del futuro Paolo VI a questa infondata ipotesi fu realmente geniale e illuminata come il gesto di Giovanni XXIII nel proporre il concilio: «la Chiesa deve estrarre da se stessa le forze per vivere, deve trovare vie nuove diverse da quelle percorse in dati e superati momenti storici». La diplomazia ecclesiastica, lungi dal costituire un freno alla sua libertà, era in grado di aprire sempre le porte al dialogo con tutte le società civili rispettose dei diritti umani. «La Chiesa odierna non deve mutuare dal favore dei poteri statali la sua forza e la sua prosperità, ma dalla parola e dalla virtù che porta, per divina istituzione (...) non dall'esterno, ma dall'interno deve derivare la sua fortuna (...) Perché ha questo di caratteristico la diplomazia della Santa Sede: manda i suoi Rappresentanti, i suoi Nunzi nei vari Paesi non solo a difendere, è ovvio, i diritti della Santa Sede, della Chiesa, ma li manda altresì a difendere i diritti, a servire i bisogni del popolo» (Discorso nella Pontificia Accademia Ecclesiastica, 1951).
Occasionalmente incontrai Hans Küng nell'università Gregoriana (e spesso anche nei cineforum tenuti da Gianluigi Rondi nel Palazzo Altemps) e altre persone che in seguito avrebbero dato sul concilio commenti molto personali. La mia bussola, come quella di tanti altri, fu invece sempre orientata dalle parole di Giovanni XXIII: il Vaticano II doveva essere un'iniezione nelle vene dell'umanità che aveva in buona parte perso di vista la meta della predicazione evangelica.
Molti commentatori hanno dimenticato che le due costituzioni dogmatiche del Vaticano II hanno proiettato una luce chiarificatrice sugli altri testi ufficiali. Il concilio del XX secolo non è stato solo pastorale, come alcuni hanno creduto, fraintendendo alcune parole di Giovanni XXIII, il quale aveva voluto solo dire che il Vaticano II non avrebbe pronunciato condanne, come era accaduto spesso nel concilio di Trento. La santità per tutti era un orizzonte che non bisognava nascondere a nessun battezzato. E il concilio aveva riaperto questo orizzonte nascosto per lungo tempo, in particolare negli ultimi secoli. Questo luminoso orizzonte lo dischiuse con forza e in modo inequivocabile la Lumen gentium.
Nel concludere queste considerazioni personali sul Vaticano II non posso non ricordare due evidenti reazioni nei suoi confronti: una profondamente ecclesiale e un'altra profondamente laica e corretta dal punto di vista storico. La prima ha riunito molte delle nuove realtà pastorali presenti oggi nella Chiesa, non sempre correttamente chiamate movimenti. La seconda ha contribuito ad aumentare il numero dei rappresentanti diplomatici presso la Santa Sede e dei nunzi apostolici in molti Paesi.
Parliamo prima della reazione ecclesiale, che interessa le nuove realtà pastorali e alcuni movimenti che dovremmo chiamare con maggior precisione “movimenti ecclesiali”. Penso, per esempio, alla prelatura personale dell'Opus Dei e ai “movimenti ecclesiali” dei Focolari, di Comunione e Liberazione o del Cammino Neocatecumenale. Tutti nacquero o furono concepiti prima del concilio.
Sono queste realtà ad aver dimostrato di vedere e di comprendere il messaggio globale del Vaticano II al di fuori degli schemi conservatori e progressisti, più adatti a politiche contingenti che a realtà vincolate alla vita religiosa. Tali schemi nacquero in ambiti dell'opinione pubblica e furono applicati alla Chiesa in modo troppo precipitoso, acritico e a volte intenzionalmente. I trattatisti e gli storici più seri vedranno un giorno, o vedono già oggi, queste nuove realtà pastorali per ciò che realmente sono: il frutto di molte ore di preghiera, di molto tempo dedicato all'attenta lettura dei Vangeli e d'intensa vita ascetica e a volte di evidenti esperienze mistiche. La Chiesa è grazie a Dio viva: lo sappiamo bene noi che abbiamo servito in Paesi di tre continenti e in ambiti internazionali, compresi le Nazioni Unite e il Consiglio d'Europa.
Come nel caso delle nuove realtà pastorali da me portate in Estonia, anche il Vaticano II ha avuto un'eco positiva nelle relazioni diplomatiche della Santa Sede. Gli Stati si sono mostrati a loro volta attenti alla vita interna della Chiesa, alla sua presenza e al suo significato nel mondo. Credo sinceramente che le cancellerie dei diversi Stati, di tradizione cristiana e non cristiana, abbiano letto con attenzione la costituzione con cui Giovanni XXIII convocò il concilio.
Come non ricordare oggi in questa ambasciata colui che ne fu il titolare per la maggior parte degli anni del concilio, l'indimenticabile e sempre dinamico don Antonio Garrigues y Diaz-Cañabate? Forse è stato uno degli ambasciatori più attenti a quanto accadeva in quella sala conciliare in cui era stata trasformata San Pietro. Don Antonio era discreto, ma era anche un cristiano saldo e addirittura entusiasta dinanzi alle “realtà reali” che il Vaticano II annunciava, come quella di ricollegarsi alle comunità cristiane dei primordi. Un concilio ecumenico era, per lui, un appuntamento della Chiesa cattolica con la realtà del presente e dell'immediato futuro. Amante della storia, sapeva che il 20 settembre 1870 non costituiva la fine del potere temporale dei Papi: era solo la purificazione di quel potere dalle sue aderenze estranee e pertanto accessorie. Sapeva che la diplomazia pontificia continuava a essere una delle prime diplomazie del mondo. Non era una diplomazia di potere, ma di servizio al mondo intero e agli esseri che lo abitano. Una diplomazia molto diversa da quella immaginata da Machiavelli, ma l'unica valida per quanti vogliono rispettare pienamente l'uomo, vale a dire (almeno in teoria) quasi tutti i Paesi rappresentati nelle Nazioni Unite.
L'allora ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede conosceva bene le statistiche: dai Patti Lateranensi del 1929 la diplomazia pontificia non aveva mai smesso di crescere. Il Vaticano aveva perso, e dico sempre grazie a Dio, un esteso territorio nella regione centrale della penisola italiana. Ma non aveva perso i diritti internazionali propri della sua natura e della sua storia. Grande giurista, l'ambasciatore Garrigues sapeva bene che, quando le truppe di Garibaldi entrarono a Roma, le ambasciate presso la Santa Sede erano sedici e che, quando furono firmati i Patti Lateranensi erano solo ventinove.
Don Antonio sosteneva che, dinanzi allo spettacolo del concilio, le ambasciate erano aumentate vertiginosamente. Abituato all'alta politica, il suo parere non era distante da quello citato alcune settimane fa dall'esperto cardinale Tauran sulle pagine dell'«Osservatore Romano» (12 dicembre 2012), ossia il parere del generale de Gaulle, il quale riteneva il Vaticano II un evento storico importante non solo per la Chiesa, ma anche per il mondo per il coraggioso esame di coscienza che si proponeva di fare sulla libertà, la giustizia e la pace.
Prova di questa “profezia laica” del grande statista francese, indubbiamente in sintonia con le speranze del nostro allora ambasciatore di Spagna, sono i seguenti dati. Durante i pontificati di Paolo VI (che lui conobbe bene) e del beato Giovanni Paolo II, sono 178 (compresa l'Unione Europea) i Paesi che hanno intrattenuto relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Da parte della Santa Sede, alle nunziature effettive o condivise tra diversi Paesi, bisogna aggiungere 18 missioni pontificie presso le Nazioni Unite a New York e a Ginevra e le loro rispettive agenzie, come pure presso il Consiglio d'Europa. Queste, unite ad altre delegazioni internazionali e governative, ammontano oggi a circa 40.
Il Vaticano II, nonostante il lungo mezzo secolo trascorso dalla sua conclusione, ha fatto sì che la Santa Sede venisse inclusa tra le prime diplomazie mondiali. Si tratta di una grande realtà per la Chiesa stessa e per tutti gli abitanti del mondo. Ma ha ottenuto qualcosa di ancora più importante: che la vita religiosa e pastorale si apra alla chiamata di tutti i battezzati alla vocazione universale e alla santità e di conseguenza a una purificazione della Chiesa stessa -- e forse anche di altre Chiese cristiane -- da eventi passati e aderenze temporali.
Nel concludere questa conferenza, risulta evidente che la mia testimonianza sul Vaticano II non si limita alla celebrazione del più importante evento ecclesiale del XX secolo. È stato anche un evento dalla portata mondiale, come osservò il sopracitato presidente francese.
Nessuno può mettere in dubbio che il concilio ha rappresentato per l'intera Chiesa -- e anche per altre Chiese cristiane -- un impulso a vivere i valori fondamentali proposti dal Vangelo e dalla teologia sottostante a ogni magistero ecclesiale del XX secolo. Poco fa ho fatto riferimento al dinamismo delle nuove realtà pastorali esistenti nella Chiesa attuale e che, con ogni evidenza, sono fondate sul concilio. Ma è anche ovvio che sono accaduti fatti non sempre comprensibili per quanti osservano la Chiesa dal di dentro e dal di fuori: diocesi che hanno visto una percentuale elevata di loro sacerdoti tornare allo stato laicale e diminuire il numero dei candidati al sacerdozio; istituti religiosi che hanno visto i loro noviziati privi, o quasi privi, di nuove vocazioni; la crescente insensibilità religiosa di una parte della gioventù battezzata nei Paesi di tradizione cristiana.
La dinamica del Vaticano II non si è interrotta a causa di questi eventi negativi. Continua a essere segno di novità positive in altre latitudini: il cardinale Rouco Varela lo ha affermato nella centesima riunione della Conferenza episcopale spagnola a metà del scorso mese di novembre.
Molte realtà negative che ho appena menzionato appartengono a ciò che oserei chiamare il mistero di queste e di altre storie ecclesiali. E che non è altro, mi sembra, che la risposta limitata di noi credenti alla grazia di Dio e all'eccezionale kayròs offerto dal nostro Dio Trinitario alla Chiesa cattolica nella seconda metà del XX secolo.
La crisi post-conciliare è stata senza dubbio causata da forti influenze esterne -- provenienti da determinati circoli sociali, che si aspettavano dalla Chiesa cattolica cambiamenti più profondi e più favorevoli ai loro interessi -- e da settori della stessa Chiesa dubbiosi dinanzi ai grandi cambiamenti proposti dal concilio. I più importanti sono contenuti, a mio parere, nella Lumen gentium e nella sua chiara duplice apertura: quella di tutti i battezzati alla santità personale e quella del dialogo con tutti i credenti nell'Antico e nel Nuovo Testamento.

(©L'Osservatore Romano 9 gennaio 2013)

4 commenti:

Andrea ha detto...

Che la crisi post-conciliare sia stata causata da "settori della Chiesa dubbiosi davanti ai grandi cambiamenti proposti dal Concilio" non l'avevo mai sentito.
Bisognerebbe chiedere al venerabile Paolo VI quali "settori" gli abbiano espresso il proprio disprezzo negli ultimi dieci anni del Suo Pontificato

Anonimo ha detto...

A voler essere obiettivi gli attacchi al venerabile Paolo VI sono venuti da tutti i "settori" della Chiesa e della società, caro Andrea. Ovviamente, ognuno per motivi diversi che, in almeno un'occasione, si sono, per così dire, incontrati. Soft prima del '68, violentissimi successivamente.
Alessia

Anonimo ha detto...

Quoto Ale,il povero Paolo VI ha avuto attacchi feroci e violenti da tutte la parti,poi la morte di Moro suo personalissimo amico fu per lui molto dolorosa;per quel che riguarda la crisi postconciliare,essa non è derivata,secondo me,dalla dubbiosità di certi settori,ma dall'interpretazione personale di alcune parti delle direttive del vat2,talora fatte ad personam,e dal fatto che ogni membro della chiesa si è sentito libero di fare ciò che più gli aggradava,da qui i vari scempi liturgici e non derivati;lei sa già cosa è avvenuto nella mia regione,dove un elevato numero di preti ha gettato la tonaca alle ortiche e adesso fa parte di determinati partiti politici e spara ancora a zero sulla chiesa massimamente su questo papa(anche i preti regolari per la verità).GR2

Anonimo ha detto...

Buona lettura della realtà con gli occhi della fede.
Un po' più di obiettività e "malizia evangelica" non guasterebbe. eccellenza!