Esce in Francia il film «Il était une foi» di Pierre Barnerias
Due biciclette
Ritanna Armeni
In Francia due giovani, poco più che ventenni, Charles Guilhamon e Gabriel De Lepinau, hanno voluto conoscerli e farli conoscere. Perché sanno che gran parte di loro è vittima di violenze, che in molti Paesi rischiano l’estinzione. Ma non è questa denuncia lo scopo del film. I giovani hanno preso due biciclette e sono andati a cercarli per parlare con loro, della loro vita, per cercare di capire la forza della loro fede. Come mai essa attecchisce e rimane ferma? Come mai riesce ad essere forte e persino gioiosa in situazioni così difficili?
Ne è nato un film Il était une foi («C’era una fede») diretto da Pierre Barnerias che è stato selezionato per il festival del cinema delle giornate mondiali della gioventù a Madrid, per quelli del film spirituale di Barcellona e di Roma e che, da qualche giorno, è proiettato a Parigi. Un documentario senza veli che per un’ora e mezza consente allo spettatore di viaggiare insieme a due ciclisti, di percorrere strade deserte e affollate, dal Medio Oriente fino alle sponde del Pacifico. E poi di attraversare, in aereo, l’oceano fino al Brasile, con una piroga, il Rio delle Amazzoni e, ancora, di raggiungere il Senegal e l’Algeria prima di ritornare, dopo 365 giorni, fra le strade di Parigi.
L’obbiettivo è chiaro e i due giovani, entrambi della parrocchia di Saint-Philippe-du-Roule, lo spiegano all’inizio: «Vedere la Chiesa lontano da Parigi e da Roma», dove è povera, minoritaria, perseguitata, sicuramente dimenticata. Dove i sacerdoti sono pochi o non ci sono.
Charles Guihamon e Gabriel De Lepinau confessano di aver intrapreso la loro avventura senza un progetto preciso, senza un piano definito se non quello di vedere, scoprire e dar conto di ciò che colpevolmente viene nascosto. «Una volta che abbiamo messo i piedi sui pedali spesso non avevamo niente altro da fare che pregare» hanno detto a chi li interrogava.
Sullo schermo si susseguono volti di giovani e di vecchi, diversi colori della pelle, diverse situazioni. La cinepresa in Iraq attraversa una povera cucina per arrivare a una stanza altrettanto povera dove c’è un altare e un gruppo di cristiani perseguitati dai terroristi e aiutati dai credenti musulmani. Poi, insieme ai due giovani si inerpica sulle montagne del Nepal, dove un sacerdote marcia per ore in salita per benedire un morto o per dire una messa. Riprende i volti sorridenti di bambini che hanno la medaglietta della Madonna al collo e di uomini che dichiarano con un sorriso di perdonare i loro persecutori. Filma le allegre danze dei senegalesi durante le cerimonie religiose, intervista e indaga sui motivi di una fede tanto isolata quanto ostinata.
Non ci mostra contesti tragici, non vediamo violenza e sangue ma solo situazioni difficili e povere, a volte tristi a volte allegre, in cui si fa a meno di tutto tranne che della fede. Se la Chiesa, per dirla con le parole dei due giovani viaggiatori, rimane «misteriosa» e complessa, «nel viaggio si scopre un’anima, una vita, una convinzione che regna anche dove non ci sono dei sacerdoti».
A Natale e a Pasqua — raccontano — «in certe comunità del Tibet o dell’Amazzonia malgrado le differenze culturali ci siamo sempre sentiti a casa nostra quasi ovunque. Vi è come una comunione che va al di là di noi». È questo il mistero che si presenta agli occhi dei due giovani ciclisti e degli spettatori. Un mistero che rimane tale anzi si approfondisce. Diventa tanto più profondo quanto più si indaga, si domanda, si scopre.
(©L'Osservatore Romano 25 gennaio 2013)
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