Economia da colmare
Baratro da colmare
Salvatore Mazza
Storditi, purtroppo, come siamo da parole che si ripetono senza avere dietro un pensiero, da slogan magari suggestivi ma vuoti di senso, capita che che un’idea – una vera idea – possa sfuggire. E che passi in sordina che il Papa ponga una volta di più la questione, centrale, dell’indispensabile riequilibrio della relazione tra uomo ed economia.
Benedetto XVI è tornato a farlo ieri nel suo annuale discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Sede apostolica.
Ammonendo che «se preoccupa l’indice differenziale tra i tassi finanziari, dovrebbero destare sgomento le crescenti differenze fra pochi, sempre più ricchi, e molti, irrimediabilmente più poveri». Perché, ha spiegato con un’intuizione geniale, «si tratta, insomma, di non rassegnarsi allo "spread del benessere sociale", mentre si combatte quello della finanza».
Espressione inedita, fulminante nel suo condensare in quattro parole causa ed effetto di una crisi che sembra infinita. Che rimanda immediatamente a quanto Papa Ratzinger affermò il 17 settembre del 2010 a Westminster, quando con altrettanta forza ed efficacia, sottolineando gli sforzi compiuti «per salvare istituzioni finanziarie ritenute "troppo grandi per fallire"», annotò come tuttavia «certamente lo sviluppo integrale dei popoli della terra non è meno importante: è un’impresa degna dell’attenzione del mondo, veramente "troppo grande per fallire"». E ancora, solo un mese prima, in volo verso Madrid, in una giornata nera segnata dall’ennesimo crollo dei mercati, aveva ripetuto che l’economia non può essere lasciata alle autoregolamentazioni dei mercati, ma ha bisogno di una «ragione etica» che la fondi, «per funzionare per l’uomo», perché non la si può misurare secondo il principio del massimo profitto ma in base a un «bene di tutti» che, inevitabilmente, implica «la responsabilità dell’altro».
Benedetto XVI, insomma, ancora una volta ieri è stato capace di mettere a fuoco il problema centrale, quello che sta sullo sfondo dei nostri sempre più essenziali bilanci familiari, della crescente difficoltà di arrivare alla fine del mese, a confronto con una politica che sembra incapace di superare slogan e invettive, e appare più prigioniera di interessi di parte che capace di guardare lontano. E nel suo invocare, ieri, l’esigenza di «rappresentanti lungimiranti e qualificati» per superare questo gap – lo ha detto per l’Europa, ma il discorso vale a ogni livello – è tornato a porci di fronte al vero interrogativo di fondo al quale, se davvero si ha a cuore il bene comune, qualcuno dovrà iniziare a rispondere: che cosa siamo disposti a fare, e a cosa siamo disposti a rinunciare, perché quello spread del benessere sociale non diventi un baratro impossibile da colmare?
È alla fine, il filo rosso che innerva tutto il magistero sociale di Papa Benedetto, di cui la Caritas in veritate è lo snodo centrale. Ma che non può essere liquidato come la "prospettiva confessionale" attraverso cui il capo della Chiesa cattolica legge una realtà che, come alcuni dicono tanto per liquidarla, «è molto più complessa». È piuttosto, ancora una volta, la sfida che la fede pone alla ragione. Secondo la visione di un Papa che crede fermamente che solo quando, e nella misura in cui, trascendenza e immanenza sapranno incontrarsi e dialogare, sarà possibile dare una risposta a quell’ansia che, per l’uomo contemporaneo, troppo spesso significa solo solitudine e disperazione.
© Copyright Avvenire, 8 gennaio 2013 consultabile online anche qui.
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