martedì 29 gennaio 2013

Tommaso e l'esperienza di Dio. Il 28 gennaio la memoria liturgica del santo teologo d'Aquino (Biffi)


Il 28 gennaio la memoria liturgica del santo teologo d'Aquino

Tommaso e l'esperienza di Dio

di Inos Biffi

Nel suo proposito di consacrarsi al «culto della Sapienza», Tommaso d'Aquino dichiara che tutto il suo impegno sarà volto «a manifestare la verità della fede cattolica e a eliminare gli errori contrari»: «ogni sua parola e ogni suo sentimento saranno impegnati a “dire Dio”» (Summa contra gentiles, i, 2). Nella vita gli interesserà soltanto la professione del teologo: il suo tempo e le sue opere saranno interamente trasfigurati dalla sacra dottrina e quindi dall'esercizio dell'intelligenza, che la teologia include ed esige. D'altra parte, egli è persuaso che tutta la realtà trova in Dio la sua genesi o il suo esito, così come a lui tutta è intimamente orientata e destinata a ritornare -- e, infatti, su questa circolarità è costruito il piano della Summa theologiae.
«Quasi tutta la riflessione filosofica -- scrive -- ha come termine la conoscenza di Dio» (Summa contra gentiles, i, 4, 3), che rappresenta «il vertice sommo della ricerca umana» (ivi). Si direbbe che l'Angelico non riesca a concepire una vera filosofia che sia obiettivamente e sensatamente atea, e quindi ad ammettere una “laicità” -- per usare un termine oggi ricorrente e usato in modo mirabilmente confuso -- che non comporti una valenza radicalmente religiosa. Credo che nessun pensatore abbia in certo modo percepito la presenza di Dio nella realtà quanto il Dottore Angelico, soprattutto grazie alla sua sensibilità nei confronti dell'“essere”: l'“essere”, che appartiene agli enti ma che soprattutto appartiene a Dio, al punto da costituirne l'essenza e la definizione.
Esaminando gli enti dell'esperienza, egli avverte acutamente che non sono autoconsistenti; esistono in quanto chiamati all'esistenza da una Causa assolutamente trascendente e incomparabile, “fuori serie” (extra genus) (Summa theologiae, i, 6, 2, 3m), dalla quale dipendono radicalmente, come dalla loro sorgente, il che equivale a dire che sono creati dal «primo Ente» (ivi, i, 3, 1, c). E infatti essere creati vuol dire esattamente ricevere l'essere, mentre creare significa «dare l'essere»: «Creare è dare l'essere» e dare l'essere «dal nulla» -- precisa Tommaso (Scriptum super libros sententiarum, i, 37, 1, 1) -- cioè senza che nulla sia presupposto o preesista. In altre parole, essere creati vuol dire passare dal «non essere» assolutamente all'«essere» (Summa theologiae, i, 45, 1). Le realtà «con la creazione sono tratte dal loro non essere all'essere (De substantiis separatis, 18), per cui negli enti «non ci può essere nulla che non provenga da Dio, causa universale dell'essere nella sua totalità» (Summa theologiae, i, 45, 2, c). Di più: tutte le creature hanno anche bisogno di essere conservate da Dio. «L'essere di ognuna dipende a tal punto da Dio, che non potrebbero sussistere neppure per un istante, ma si risolverebbero nel nulla, se la forza divina non le conservasse nell'essere» (ivi, 104, 1, c). Su questi presupposti si potrebbe parlare di “familiarità” di Tommaso, filosofo e teologo, nei confronti di Dio: una familiarità di pensiero, di “professione” e una familiarità di vita: sappiamo dai biografi quanto fosse ardente e assidua la sua orazione. E tuttavia appaiono, al riguardo, pertinenti due rilievi.
Il primo per dire, anzitutto, quanto fosse vivo in lui il senso della trascendenza di Dio, della sua inarrivabilità. Egli ripete: «Al presente il nostro intelletto si unisce a Dio giungendo a conoscere quello che non è» (In Dionysii de divinis nominibus, 13, 3); «Noi, più veramente, conosciamo quello che Dio non è» (In 1 sententiarum, 34, 3, 1, c); «Nessuna definizione può delimitarlo o capirlo adeguatamente (De potentia, 7, 5, ad 6); «In questa vita tanto più perfettamente lo conosciamo, quanto maggiormente avvertiamo che egli eccede tutto quanto si possa comprendere con l'intelletto» (Summa theologiae, ii-ii, 8, 7, c); «L'essenza di Dio ci resta sempre nascosta; la massima conoscenza che possiamo avere di lui quaggiù consiste nel renderci conto che egli trascende tutto quello che pensiamo di lui» (De veritate, 2, 1, ad 9).
Sia il filosofo sia lo stesso teologo, pur se parlano con certezza di Dio, non dispongono assolutamente di lui, e in questo senso si muovono, l'uno e l'altro, nell'oscurità della fede, operano nel mondo dei segni, dal momento che egli abita in un eccesso di luce e che la sua realtà rimane radicalmente inafferrabile e impenetrabile. Da qui la loro costitutiva religiosità, umiltà, e anche gratitudine, consapevoli come sono d'essere in ogni istante tenuti nell'esistenza dalla “memoria” di Dio, dal dono divino dell'essere.
La seconda considerazione è per fare notare che secondo san Tommaso è possibile non solo ricercare Dio e unirsi a lui mediante il sapere dell'intelletto, coi limiti appena ricordati, ma anche attraverso la conoscenza che viene dall'amore nel quale essa trova il suo compimento: «L'amore -- afferma il Dottore angelico -- è il termine della conoscenza» (Summa theologiae, ii-ii, 27, 4, 1m); «Grazie all'ardore della carità è data la conoscenza della verità» (Super evangelium Iohannis, capitolo 5, lectio 6). «Si ha vera sapienza -- sono ancora sue parole -- quando l'operazione dell'intelletto trova la sua perfezione e il suo compimento nella pacificazione dell'amore» (Super secundam epistolam ad Corinthios, capitolo 13, lectio 3).
Tommaso si pone in questo alla scuola dello pseudo-Dionigi, un autore che egli conosce bene, e che influisce profondamente su di lui, pur critico della visione neoplatonica della realtà. Ora, alla sua stregua, egli distingue nettamente l'«imparare» dallo «sperimentare», il discere divina dal pati divina (Summa theologiae, i, 1, 6, 3m).
Ricordiamo un testo particolarmente luminoso dal Commento alle Sentenze: «In alcuni la sapienza è presente in virtù dello studio e dell'apprendimento dottrinale, uniti all'acutezza dell'intelligenza», e allora si tratta di una virtù intellettiva; «in altri, però, essa si ritrova grazie a una certa affinità alle realtà divine (affinitas ad divina), come dice Dionigi di Ieroteo (De divinis nominibus, 2), che impara le realtà divine patendole -- essendo toccato da esse -- e di loro l'Apostolo dice che: «l'uomo spirituale giudica tutto», mentre in i Giovanni, 2, 27 è scritto: «L'unzione vi insegnerà ogni cosa»» (In III sententiarum, 35, 2, 1, 1, sol. 1).
In conclusione, scrive Tommaso: «Alcuni sono lampade solo quanto all'ufficio, ma quanto all'amore sono spente: infatti, come la lampada non può illuminare, se non viene prima accesa dal fuoco, così la lucerna spirituale non può non diffondere luce, se prima non arde e non è infiammata dal fuoco della carità. L'ardore è premesso alla illuminazione, poiché è grazie all'ardore della carità che viene concessa la conoscenza della verità» (Super evangelium Iohannis, capitolo 5, lectio 6). Chi trascurasse questi testi di Tommaso mostrerebbe una ridotta conoscenza di lui.

(©L'Osservatore Romano 28-29 gennaio 2013)

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